HURACAN 1973: La squadra migliore che nessuno (o quasi) ha mai visto


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Mi si perdonerà il titolo rubato ad una delle più belle biografie calcistiche di sempre (quella sul “maverick” Robin Friday) ma davvero non riesco a pensare a qualcosa di più appropriato per raccontare di una squadra che ha rappresentato una pietra miliare nella storia del calcio argentino.

Qualcuno è arrivato a dire che c’è stato un “prima” e un “dopo” Huracan … un po’ come successe esattamente in quegli anni in Europa con il grande Ajax di Rinus Michels.

Di sicuro c’è che il calcio espresso da questo team nella magica stagione del 1973 ha davvero rappresentato una svolta epocale per il calcio argentino.

Dopo anni e anni di calcio “resultadista” , basato sulla forza fisica, su una difesa aggressiva e su una ferrea disciplina ed organizzazione di gioco che se a livello di Club ottenne importanti risultati, grazie soprattutto all’Estudiantes che ne fece un “arte” di questo modello di gioco diciamo così … pragmatico, non altrettanto si può dire dei risultati della Nazionale biancoceleste che dopo la polemica e mai digerita eliminazione subita dall’Inghilterra nei Mondiali del 1966 fu addirittura incapace di qualificarsi per i mondiali successivi, quelli di Messico 1970.

Il calcio argentino insomma, aveva perso la bellezza.

Quello della “Nuestra”.

Quello della “maquina del River” negli anni ’40 o quello della Nazionale delle “facce sporche” degli anni ’50 per intenderci.

La “Nuestra” non apparteneva più alla tradizione argentina, il famoso “calcio criollo” quello cantato dalla poesia di Eduardo Galeano e che così definiva il passaggio storico in cui gli Argentini si impossessarono del calcio, esprimendo attraverso il loro modo di giocare, individualista e creativo, la repulsione verso il “kick and run” degli inglesi che in Argentina esportarono il calcio ma che pretendevano si giocasse a modo loro.

L’amore incondizionato degli argentini verso l’autentica passione nazionale chiedeva a gran voce una “contro svolta”.

Tutto molto bello nelle intenzioni ma per farlo occorreva innanzitutto un visionario talmente coraggioso da andare completamente contro i dettami dell’epoca, fatti come detto di difese arcigne, tanta corsa, fallo tattico esasperato e, termine blasfemo fino a pochi anni prima, utilizzo di catenaccio e contropiede in puro stile italico.

In questa situazione apparentemente senza via di uscita arriva un uomo, pronto a fare la rivoluzione.

Guarda caso anche lui di Rosario, come il più celebre rivoluzionario argentino della storia.

Si chiama Cesar Luis Menotti e con il suo Huracan fa capire fin dall’inizio che vuole percorrere una strada totalmente diversa.

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L’approccio di Menotti è di quelli che spiazzano, che provocano e scuotono le coscienze calcistiche.

“Da quando per giocare bene a calcio bisogna CORRERE ???!!!” è la frase simbolo  del “Flaco” in quel periodo.

Esagerata, estrema forse … ma che comunque ha l’obiettivo, centrato, di minare dalle fondamenta il credo calcistico di allora.

La palla è quella che deve “correre” e lo deve fare passando da giocatore all’altro della stessa squadra, sapendola gestire, accarezzare … coccolare.

Perderla è la vera sofferenza.

Il giocatore deve tornare a sentirsi libero di creare, prendendosi il coraggio di rischiare una “gambeta” o un “cagno”.

Solo così cresce l’autostima, solo così si trasmette positività a tutto il team.

… solo così ci si diverte e soprattutto SI diverte il pubblico.

L’impatto di Menotti è devastante.

Già nel Metropolitano del 1972 l’Huracan si distingue per il suo calcio offensivo e spettacolare e raccoglie un ottimo 3° posto alle spalle di San Lorenzo e Racing Club ma segnando più gol di tutti gli altri teams e piazzando due dei suoi giocatori, Brindisi e Avallay, ai primi due posti della classifica marcatori, con 21 e 17 reti rispettivamente.

Manca però ancora qualcosa.

Manca la scintilla definitiva, quella che faccia diventare l’Huracan la squadra più forte di tutte.

Come “regalo di Natale” poco prima dell’inizio del Nacional del 1973 Cesar Luis Menotti chiede alla dirigenza del Huracan di acquistargli un ventenne praticamente sconosciuto che gioca ala destra in serie C, nel Defensores de Belgrano.

“Vedrete” dice El Flaco ai suoi dirigenti “con lui diventeremo imbattibili”

La cifra è importante ma Menotti lo vuole a tutti i costi e così Renè Orlando Houseman viene acquistato.

Al suo arrivo in sede le reazioni di presidente e dirigenti dell’Huracan sono di due tipi, diametralmente opposte.

A qualcuno scappa da ridere a qualcuno invece verrebbe da piangere pensando a tutti i pesos spesi !

Renè Orlando Houseman è piccolo, praticamente pelle e ossa, capelli lunghi che non vedono un pettine probabilmente da settimane, non rasato e vestito quasi come un senzatetto.

Il tempo di vederlo in campo per capire che, anche stavolta, aveva ragione lui, El Flaco.

Anzi, la frase più ricorrente era diventata “Ma com’è che questo fenomeno non lo aveva ancora comprato nessuno ?”

Con l’arrivo di Houseman i pezzi del puzzle vanno ad incastrarsi alla perfezione.

In porta c’è Roganti, sicuro e affidabile, terzino destro “El Buche” Chabay, agile e bravo in fase di spinta, terzino sinistro lui, “El Lobo” Carrascosa, elegante, preciso e tenace.

In mezzo alla difesa Buglione, tipico stopper di allora, durissimo e forte in marcatura e al suo fianco il grande “Coco” Basile, già un allenatore in campo, leader assoluto della squadra e con una sapienza tattica eccelsa.

Francisco Russo era il classico “5”, il frangiflutti davanti alla linea difensiva. Ordinato, intelligente, umile. Non per niente il suo soprannome era “Fatiga”.

Le due mezzali sono due geni.

Mezzala destra è Miguel Angel Brindisi, uno dei più grandi calciatori argentini di tutti i tempi.

Creativo, tecnico, eccellente negli inserimenti e spietato in zona gol.

Mezzala sinistra “El Ingles” Carlos Babington, mancino di qualità immensa, con una precisione nel passaggio estrema e di grande tecnica individuale.

In attacca a sinistra c’è Omar Larrosa (che farà parte del gruppo che nel 1978 vincerà i Mondiali) giocatore potente, predisposto alla corsa e al sacrificio e bravo a tagliare al centro per andare a concludere.

Centravanti è Roque Avallay, non un fenomeno ma molto intelligente e abile nel creare spazi e impegnare i centrali avversari.

A destra lui, “El Loco” Houseman, 165 centimetri di estro, follia calcistica e talento. Uno dei primi grandi e veri “ribelli” del pallone.

Menotti lo sa e lascia libero lui, Brindisi e Babington di creare, di inventare calcio.

L’Huracan di quel 1973 diventerà l’emblema della rinascita.

Triangolazioni strette, tocchi di prima, dribbling vertiginosi, ragionato possesso palla e poi verticalizzazioni improvvise  … e tanti tantissimi gol.

In un calcio argentino che in quel momento brillava per la rudezza e la solidità delle difese, per il tatticismo esasperato e difensivista segnare 46 gol nelle 16 partite del girone di andata è qualcosa di straordinario

Vittorie sonanti e di larga misura come il 6 a 1 all’esordio contro l’Argentinos Juniors, o un 5 a 0 al Racing Club non erano un eccezione.

Di una partita in particolare si ricordano ancora i vecchi hinchas del “Globo”.

Una vittoria in trasferta per 5 a 0 sul difficilissimo campo del Rosario Central, squadra allora ai vertici del calcio argentino.

Alla fine di quell’incontro accade qualcosa di assai raro nel mondo del calcio e soprattutto a quelle latitudini dove la passione e l’amore per i propri colori spesso acceca completamente l’obiettività sportiva: praticamente tutto il pubblico di fede “Canallas” si alza in piedi a fine partita ad applaudire l’Huracan, riconoscimento estremo per una dimostrazione di calcio di bellezza rara.

Quel periodo magico purtroppo durerà molto poco.

Già al termine del girone d’andata la Nazionale Argentina iniziava la sua preparazione per il Mondiale Tedesco del 1974 e l’Huracan si vede portar via ben 5 dei suoi profeti; Brindisi, Babington, Carrascosa, Larrosa e ovviamente Houseman.

Un campionato che sembrava già in bacheca torna così prepotentemente in discussione.

A quel punto, privato di 4 dei suoi 5 attaccanti, l’Huracan di Menotti fa di necessità virtù trasformando la difesa nella sua arma migliore, pur continuando ad esprimere un ottimo calcio.

12 soli gol concessi nel girone di ritorno permettono ai ragazzi di Menotti di riportare, dopo ben 45 anni, il titolo al “Tomas Duco’”, la casa del Globo.

La splendida favola dell’Huracan dura davvero un battito d’ali.

Alla fine di quella stagione Cesar Menotti diventa il Selezionatore della Nazionale Argentina, con la non facile responsabilità di vincere il Mondiale che nel 1978 il suo paese avrebbe ospitato.

L’Huracan continua a buoni livelli per un paio di stagioni, raggiungendo una semifinale di Coppa Libertadores nel 1974 e piazzandosi al secondo posto nel Metropolitano del 1975 e del 1976.

Ma il ricordo di quella magica stagione è indelebile soprattutto per quello che ha significato per tutto il calcio argentino, capace con l’Huracan di Menotti e dei suoi ragazzi, di ritrovare il suo spirito, la sua indole e la sua vera natura.

Per chiudere, le parole che uno dei più grandi cantori d’Argentina, “El Negro” Fontanarrosa, dedicò all’Huracan di quella stagione memorabile.

“Tutti dovrebbero rallegrarsi della vittoria dell’Huracan per come è stato conseguito e per il modo con cui è stato ottenuto. Perché ha significato tornare alla più antica origine del calcio in questo Paese: giocare con allegria”.

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Storie maledette: ERASMO IACOVONE


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“Adesso pure la Roma !

Dicono che anche Gustavo Giagnoni, il mister dei giallorossi, sia interessato a me.

Dopo aver ceduto Pierino Prati alla Fiorentina pare non sia contento dei suoi due attaccanti, Musiello e Casaroli.

Qualche settimana fa è stata la Fiorentina stessa che pare abbia chiesto conto di me al Presidente Fico.

A novembre dicono che ci hanno provato entrambe a portarmi via da qua.

Tutto molto lusinghiero.

Ma nessuno mi ha ancora chiesto come la penso io !

Io, a Taranto, sto come un Re.

Ho girato su e giù per l’Italia prima di arrivare qui.

A Trieste pensavo addirittura di smettere.

Giocare in serie C mica ti fa arricchire e se poi fai il centravanti e in 13 partite non la butti dentro neanche una volta … beh, qualche pensiero negativo ti viene !

Poi a Carpi tutto è cambiato.

Non solo perché ho fatto tanti gol e perché abbiamo conquistato la promozione dalla serie D alla C ma perché a Carpi, in mezzo alla meravigliosa gente di quelle parti, ho trovato l’amore della mia vita.

Paola, la donna più bella tra tutte le bellissime donne emiliane.

Mi darà un figlio fra pochi mesi.

Mio figlio nascerà qui, a Taranto.

E forse ci crescerà.

In mezzo alla gente che mi ha amato dal primo momento, nonostante tutti i soldi spesi per il mio cartellino.

Non ho mai sentito diffidenza attorno a me.

Solo speranza.

La speranza di una città che sta crescendo, che sta dando pane e lavoro ai propri figli e che ama il calcio visceralmente, senza però che il calcio le abbia mai restituito granché.

Quest’anno però stiamo sognando !

Noi giocatori e tutta la gente di Taranto che riempie ogni domenica il nostro piccolo Salinella.

Sembra uno stadio britannico, tutto legno e tungsteno.

Ci stiamo giocando la promozione in Serie A.

Ascoli a parte, che pare davvero di un’altra categoria, con Catanzaro, Avellino, Monza, Ternana e Palermo sarà una battaglia fino alla fine.

Io mi sto divertendo come non mai da quando gioco a calcio.

La squadra è forte, fortissima.

Siamo affiatati, facciamo “gruppo” come dicono gli allenatori.

Ci vogliamo bene insomma.

Al mio fianco ho due fenomeni autentici.

Franco Selvaggi e Graziano Gori.

Io non sono bravo come loro con i piedi.

Anzi, ogni tanto la palla mi scappa e i miei compagni mi prendono in giro dicendo che non so stoppare neanche un sacco di cemento …

Ma con i loro passaggi e soprattutto i loro cross fanno sembrare bravo anche me !

Non sono un gigante con i miei 174 centimetri ma mi riesce facile saltare.

A Taranto sono arrivato la stagione scorsa, dal Mantova, nel mercato di novembre.

Ho segnato 8 gol in poco più di metà stagione.

Tutti di testa.

Dicono che assomiglio a Savoldi, il bomber del Bologna.

Chissà.

So solo che sarebbe davvero meraviglioso andare in serie A con il Taranto.

Certo che per riuscirci avremmo bisogno di un po’ più di fortuna di quanta ne abbiamo avuta oggi !

Con la Cremonese qui al Salinella la palla non ne voleva proprio sapere di entrare !

Ginulfi ha parato di tutto.

Meno male che dicevano che era vecchio e che non era più quello dei tempi della Roma !

E quando non ci arrivava lui ci hanno pensato i pali della porta.

Ne abbiamo presi 3 oggi, due io e uno Franco.

E’ andata così.

Guardiamo avanti.

Certo che il 1978 potrebbe davvero diventare un anno indimenticabile !

Alla fine dell’estate arriverà il mio primo figlio e magari qualche mese prima arriverà anche la promozione in serie A !”

 

 

Erasmo Iacovone non raggiungerà la promozione in serie A con il Taranto.

Erasmo Iacovone non giocherà mai più nessuna partita con il Taranto.

Erasmo Iacovone non giocherà mai più una partita di calcio.

… Erasmo Iacovone non vedrà nemmeno nascere sua figlia.

E’ il 5 febbraio del 1978.

Domenica sera.

I compagni di squadra al termine della sfortunata prestazione con la Cremonese insistono perché “Iaco-gol” (così era chiamato da tutti i tarantini) si unisca a loro per passare la serata insieme alla “Masseria” un noto ristorante della zona.

Erasmo non ne ha molta voglia.

Non ama uscire.

E’ una persona molto tranquilla “tutta campo di calcio e casa” lo definirà l’amico e compagno di squadra Adriano Capra.

In una intervista di qualche settimana prima Erasmo confesserà che il suo hobby è cucinare per lui e la moglie Paola.

Quella domenica Paola non è Taranto.

E’ tornata dai suoi genitori, a Carpi.

Ha una visita di controllo.

E’ in cinta del loro primo figlio.

Come tutte le sere si sentono al telefono.

Forse è proprio Paola che lo convince ad uscire, a distrarsi un po’ e a passare una serata in compagnia senza pensare continuamente al calcio, a partite vinte o perse, a gol realizzati o falliti …

Alla fine Erasmo si convince.

Esce di casa.

Sale sulla sua umilissima Citroen Dyane 6 e si mette in strada per raggiungere i compagni al ristorante.

E’ ancora arrabbiato per quanto accaduto in campo poche ore prima.

Ginulfi, il portiere della Cremonese e storico numero “1” della Roma di qualche anno prima, gli ha parato di tutto e le poche volte in cui non ci è arrivato lui ci hanno pensato i pali della porta a negare il gol al bomber del Taranto.

Un pareggio e un punto perso nella corsa alla promozione.

Dopo la cena Gori e compagni gli hanno riferito che ci sarebbe stato anche un piccolo spettacolo di cabaret.

In fondo qualche risata potrebbe essere proprio il toccasana giusto per il suo umore … per dimenticare i gol sfiorati e soprattutto la lontananza dall’adorata Paola.

Passa la serata con i compagni.

Finito lo spettacolo il gruppo degli “scapoli” della squadra vorrebbe “tirare l’alba” altrove ma nonostante le insistenze dei compagni Erasmo decide di tornarsene a casa.

Da solo, come era arrivato.

Sono le prime ore del mattino.

Erasmo esce dal ristorante e risale sulla sua Dyane.

Percorre le poche decine di metri che dividono la stradina interna che porta alla “Masseria” per immettersi sulla Statale per rientrare a Taranto.

In quel momento sopraggiunge un automobile.

E guidata da un giovane pregiudicato locale, tale Marcello Friuli.

La polizia gli è alle calcagna dopo che il Friuli con la sua Alfa 2000 GT appena rubata ha forzato un posto di blocco.

Sta viaggiando a folle velocità.

La polizia dirà che sfiorava i 200 km all’ora.

Ma soprattutto è a fari spenti.

Erasmo non può vederlo.

La sua macchina, la sua piccola e umile Dyane, viene centrata in pieno dalla macchina del Friuli.

Erasmo viene sbalzato fuori dall’abitacolo.

Muore sul colpo.

Il suo corpo verrà trovato a diverse decine di metri dall’auto.

Taranto poche ore dopo si sveglierà senza il suo idolo, il suo emblema … la sua speranza.

Una moglie, con una bimba in grembo, si sveglierà senza il suo uomo.

La città è attonita.

Nessuno riesce a capacitarsi di quello che è successo.

Non ora … non qui … non adesso che i nostri sogni, grazie a quell’umile, buono e coraggioso numero 9 stavano prendendo finalmente forma …

La forma di questo ragazzo di un piccolo paesino del Molise che dopo aver girovagato per l’Italia aveva trovato il suo Paradiso in Puglia, portandosi dietro dall’Emilia il suo amore.

Erasmo, che giocava con il cuore in mano e che nella suola degli scarpini aveva probabilmente dei propulsori nascosti che lo facevano saltare come un canguro per andare a colpire di testa palloni che parevano irraggiungibili … anche per quelli molto più alti di lui.

La rabbia per questa morte assurda è tanta.

Sono in molti quelli che non riescono ad accettarlo.

Uno di questi è il portiere del Taranto, Zelico Petrovic, amico fraterno di Erasmo, che viene trattenuto a stento dopo che si era precipitato nell’ospedale dove era ricoverato il Friuli, rompendo anche un vetro con un pugno nel tentativo di arrivare al collo di quel delinquente.

Il Presidente, Giovanni Fico, è distrutto.

Il suo amato Taranto stava lottando per qualcosa di mai neppure lontanamente sognato prima.

Erasmo incarnava più di ogni altro questo sogno.

Per lui Fico aveva “rotto il salvadanaio” spendendo più di 400 milioni, cifra incredibile per quei tempi e per un giocatore che non aveva mai giocato in serie A.

Sarà sua l’idea, solo due giorni dopo la morte di Erasmo, di intitolargli lo stadio.

Taranto e la sua gente da quella maledetta notte d’inverno hanno smesso di sognare.

La promozione in serie A, così vicina fino a quel terribile 5 febbraio, diventerà presto una chimera.

Una sola vittoria nelle ultime 12 partite sancirà, più di qualsiasi commento, quanto Erasmo Iacovone fosse fondamentale per questa squadra.

Il Taranto calcio è ancora fermo a quel giorno.

Da allora tanta serie C con qualche breve escursione nella categoria superiore e addirittura con l’onta del campionato nazionale dilettanti

Di serie A però, non se n’è mai più parlato.

Ne tantomeno la si è sognata.

A Taranto però tutti conoscono la storia di quel Taranto e di Erasmo Iacovone.

Anche i bambini.

Tramandata di generazione in generazione, come si faceva un tempo.

Da qualche anno c’è anche qualcosa di tangibile ad aiutare la memoria di “Iaco-gol”:

Una statua a lui dedicata, posta all’entrata della curva più calda del tifo tarantino.

E’ posta su un piedistallo.

In alto … in modo che tutti possano vederla.

In alto … come quando Erasmo saliva in cielo verso il pallone per spedirlo con una delle sue proverbiali incornate in fondo alla rete …

Riposa in pace “Iaco”.

Per una città intera e per i tanti che ti hanno voluto bene, il tuo ricordo non morirà mai.

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Per questo mio modesto tributo a questo grande e sfortunato campione devo ringraziare l’amico Adriano Capra, grande amico e compagno di squadra di Erasmo in quel meraviglioso Taranto, che con i suoi racconti, i suoi aneddoti, la sua coinvolgente simpatia e la sua umanità mi hanno permesso di raccontare di Erasmo.

E devo ringraziare soprattutto Paola, che con il suo appoggio, la sua disponibilità e la sua profondità d’animo mi ha accompagnato e supportato in questo racconto.

Senza la sua “benedizione” non avrei mai potuto raccontare di Erasmo e della sua tragica storia.

Grazie ad entrambi dal profondo del cuore.

Sono un piccolo “artigiano della parola” ma spero davvero che questo racconto arrivi a più persone possibili perché la storia di questo giocatore ma soprattutto di questa “bella persona” possa andare un po’ più in là di Taranto e della sua meravigliosa gente che ha amato e continua ad amare come e più di allora Erasmo e gli altri ragazzi di quella magica stagione.

Vorrei chiudere con una frase meravigliosa e toccante di Paola che forse più di ogni altra riassume l’essenza di Erasmo Iacovone …

“Erasmo non poteva appartenere a questo mondo terreno perché aveva troppe qualità insieme … e tutte bellissime.”

Storie maledette: RAMIRO “El chocolatin” CASTILLO


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E’ il momento più bello di tutta la mia carriera.

Domani giocheremo la finale della Coppa America.

Contro il Brasile.

Brasile che in semifinale ha annichilito il Perù con un perentorio 7 a 0.

Per la Bolivia, il mio Paese, è comunque un risultato storico.

Proprio qui in Bolivia, nel lontano 1963, vincemmo il nostro unico titolo di campioni del Sudamerica.

E’ l’ultima partita la vincemmo proprio contro il Brasile !

Anche questa edizione è stata organizzata nel mio Paese.

Siamo arrivati in finale senza rubare nulla, solo con le nostre forze e il sostegno dei 42.000 che gremiscono il nostro “Hernando Siles” e gli altri 8 milioni di boliviani che sognano un’altra vittoria, dopo la bellezza di 34 anni di digiuno.

Possono dire quello che vogliono i vari commentatori ed opinionisti che sono arrivati qui dal resto del Sudamerica “giocare in altura è un vantaggio enorme per i boliviani … le altre squadre non sono abituate e devono semplicemente cercare di adattarsi”.

Quante storie !

In fondo è sempre e solo una palla che rotola e noi finora l’abbiamo fatta rotolare meglio di tanti altri in questo torneo.

Abbiamo vinto il girone eliminatorio a punteggio pieno e senza subire un solo gol.

Abbiamo battuto tra le altre Venezuela e Uruguay in questo girone … mica le ultime arrivate !

Poi è toccato alla Colombia nei quarti e tre giorni fa al Messico in semifinale.

Che partita ragazzi !

Siamo andati in svantaggio dopo pochi minuti e ci abbiamo messo un po’ a reagire.

Il timore di non farcela, di doverci arrendere all’ultimo ostacolo prima della finale ci aveva attanagliato le gambe.

Poi ci ha pensato il nostro bomber Erwin “Platini” Sanchez a ridarci speranza trovando il gol del pareggio con una punizione impressionante.

A quel punto ci siamo sbloccati ed è arrivato poco dopo il 2 a 1 … che ho segnato io stesso !!!

La palla non l’ho neanche vista … mi è sbattuta sul ginocchio ed è finita in rete !

Beh … un po’ di fortuna nella vita non guasta …

Il nostro pubblico è impazzito e il 3 a 1 di Moreno nel finale ha sancito la nostra vittoria.

https://youtu.be/CjRLxxIV29U

Ora siamo qua, aspettando queste ultime ore che ci dividono da una finale storica.

La Paz è come impazzita !

Tutto il popolo boliviano sarà con noi nella cancha a sostenerci.

Per tentare un’impresa quasi impossibile.

E’ il Brasile di Ronaldo, di Romario, di Leonardo, di Roberto Carlos, di Denilson e di Dunga.

Fanno paura … ma proprio per questo non abbiamo nulla da perdere per cui … proviamoci !

Ramiro “El chocolatin” Castillo non giocherà quella finale.

Poche ora prima di scendere in campo gli arriva una telefonata.

La peggiore telefonata possibile per un padre.

Il figlio di Castillo, Juan Manuel di 7 anni, è stato colpito da una grave forma di epatite.

Le sue condizioni sono gravissime.

Ramiro lascia il ritiro, si precipita nell’ospedale di La Paz dove è ricoverato il figlio.

La situazione è disperata.

Ramiro non si muoverà più da lì, dal capezzale del suo piccolo Juan Manuel.

E’ ancora negli occhi di tutto il popolo boliviano quando dopo la storica vittoria contro il Brasile nel 1993 che sancì di fatto la prima qualificazione ottenuta sul campo per i Campionati del Mondo di calcio dalla Bolivia e che Ramiro festeggiò insieme ai suoi compagni di squadra facendosi un intero giro del campo con il piccolo Juan Manuel sulle spalle.

Juan Manuel non ce la farà.

Due giorni dopo il ricovero il piccolo lascerà la mamma e il papà per volare in cielo.

Ramiro è distrutto.

L’intero popolo boliviano si stringe attorno a lui e alla sua famiglia.

La solidarietà e l’affetto di amici e compagni di squadra è enorme.

Ramiro, che dopo tanti anni in Argentina in squadre prestigiose come il River Plate

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o il Rosario Central aveva deciso da poco di rientrare nel suo paese, nel Bolivar, vuole smettere con il calcio.

Che senso ha correre dietro ad un pallone quando le notti sono insonni e alla mattina non hai neppure la forza di alzarti dal letto ?

Il suo stato depressivo è evidente, conclamato.

Le prime settimane sono terribili.

Ramiro “el chocolatin” Castillo è un fantasma.

Poi gli amici più cari e la moglie lo convincono.

Riprende gli allenamenti.

Corre, suda, lotta … i compagni provano in ogni modo a farlo sorridere, ad aiutarlo a riprendere interesse per il calcio … e per la vita.

Ricomincia il campionato e Ramiro è tornato in prima squadra.

Il peggio pare passato.

Torna anche in Nazionale.

Ci sono le qualificazioni per i Mondiali di Francia che si giocheranno la prossima estate.

Tutto inutile, tutto effimero.

La testa torna sempre lì … ogni giorno.

Al suo cucciolo, al suo piccolo Juan Manuel che un destino bastardo gli ha strappato troppo presto.

E il 18 ottobre del 1997.

Ramiro viene trovato impiccato con un lenzuolo nella sua casa di La Paz.

Il giorno prima, il piccolo Juan Manuel, avrebbe compiuto 8 anni.

 

Come al solito ci tengo a precisare che la prima parte “romanzata” e raccontata in prima persona è frutto della immaginazione di chi scrive.

“El chocolatin” così chiamato per il colore scurissimo della pelle, è stato un grande giocatore a cui il destino ha riservato la peggiore possibile delle cose che possono capitare ad un padre.

Era una persona umilissima, semplice, schiva e riservata.

… qualcuno dice che se fosse stato brasiliano o argentino sarebbe diventato una star a livello mondiale … per lui purtroppo il fato aveva deciso altro …