La Juventus, Gianni Agnelli e uno sconosciuto da … record.


chalmers

E’ una storia strana.

Particolare e pazza.

E’ la storia di William Chalmers.

“Billy” Chalmers è un allenatore scozzese quasi sconosciuto che dopo una dignitosa carriera di calciatore in squadre come il Newcastle e il Notts County intraprende la carriera di allenatore.

Ed è su una panchina che lo troviamo pochissimi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Una panchina tutt’altro che prestigiosa e ambita: quella del Ebbw Vale, piccola squadra del Galles.

Con risultati discreti ma non certo eclatanti.

Questo accade nella stagione 1947-1948.

In quella successiva invece William “Billy” Chalmers si andrà invece a sedere su un’altra panchina e non in Galles, in Inghilterra o nella sua Scozia natia.

No.

Andrà in Italia.

Sulla panchina della Juventus.

Avete letto bene.

JUVENTUS.

La squadra della famiglia Agnelli che, dopo quasi un lustro di sconfitte e umiliazioni in serie inflitte dai concittadini del Torino, decide di affidarsi ad un Manager proveniente dalla terra che il calcio lo aveva inventato.

La leggenda (o almeno una delle leggende …) racconta che fu proprio il giovane rampollo Gianni a prendere questa decisione sull’onda dell’entusiasmo e dell’ammirazione che avevano suscitato in lui i “maestri inglesi” capaci di annichilire la Nazionale Italiana di calcio con un perentorio 4 a 0 pochi mesi prima.

Ora, che esistessero nella terra d’Albione almeno un centinaio di allenatori più accreditati (e capaci) del povero Chalmers è un dato di fatto assolutamente inconfutabile.

E che la scelta del giovane Agnelli sia stata quanto mai bizzarra lo è altrettanto.

Chissà, probabilmente il fatto che Chalmers fosse nato nello stesso  paesino scozzese (Bellshill, ad uno sputo da Glasgow) che diede i natali a Sir Matt Busby (per quei pochissimi che non lo sapessero è colui che portò il Manchester United di Best, Charlton e Law sul tetto d’Europa nel 1968) potrebbe aver mandato in confusione il povero Gianni.

Fatto sta che in quella stagione “la vecchia signora” si affidò a questo carneade per tentare di contrastare lo strapotere di quella che fu con ogni probabilità la squadra di Club più forte che si sia mai vista cimentarsi nel gioco del Foot-ball nel nostro Paese: il grande Torino di Valentino Mazzola, di Gabetto, Bacigalupo e Loik.

Come andò a finire è facile immaginarlo.

Il Torino (colpito sul finire di quella stagione dalla tragedia di Superga) vinse comunque quel campionato.

La Juventus si piazzò al 4° posto e Chalmers, oltreché a lasciare un ricordo … “indelebile” in Boniperti e compagni per i suoi stravaganti metodi di allenamento (amava far allenare i suoi giocatori anche nei corridoi dei treni o nelle hall degli alberghi) entrò comunque nella storia della Juventus.

Non per meriti sportivi, tutt’altro.

Ma come l’unico allenatore nella storia dei bianconeri ad aver giocato almeno due derbies “della Mole” ed essere riuscito a perderli entrambi !

E, come se non bastasse, nella stagione successiva la Juventus vinse lo Scudetto … con un allenatore inglese sulla panchina, Mr. Jesse Carver.

Storie maledette: ANTONIO PUERTA


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“Non è stato affatto facile.

Fino a quel meraviglioso giorno di marzo del 2004 quando il nostro Mister di allora Joaquin Caparros decise che ero pronto per esordire in campionato.

Ci sono voluti più di due anni di trafila nella seconda squadra del Siviglia e tanta tenacia prima di arrivare dove sono ora: nell’undici titolare e nella rosa della Nazionale Spagnola.

Io non sono esattamente il calciatore più talentuoso in circolazione.

Ok, ho un bel sinistro, una buona tecnica, so saltare un avversario in dribbling e so crossare.

Ma non sono David Silva o Antonio Reyes.

Ho dovuto lottare, sacrificarmi e metterci l’anima in ogni allenamento per arrivare in prima squadra.

Il Club per farmi fare esperienza ha provato diverse volte a propormi soluzioni in Segunda o anche in team di livello inferiore in Primera.

Non ne ho mai voluto sapere.

Io sono nato a Siviglia, nel Barro del Nervion, tifo Siviglia da sempre.

Qui sono cresciuto e qui, solo qui, voglio giocare.

Nelle giovanili ho giocato a fianco di ragazzi meravigliosi (e grandi calciatori) come Sergio Ramos, Sergio Navas, Alejandro Alfaro e  il mio amicone Kepa Blanco e insieme siamo tutti arrivati a trovare il nostro spazio nel calcio che conta.

Poi è arrivata QUELLA sera.

Il 27 aprile 2006.

Al Sanchez Pizjuan giochiamo contro lo Schalke 04.

E’ la semifinale di Coppa Uefa.

All’andata abbiamo strappato uno 0 a 0 che non ci fa stare affatto tranquilli.

Io sono in panchina.

La partita non si sblocca. Questi tedeschi sono tosti, organizzati e hanno un paio di giocatori di grande qualità.

Ad un certo punto Juande Ramos mi chiama. Sono già venti minuti buoni che mi scaldo a bordo campo.

“Forza Antonio, vai in campo. Stai “aperto” sulla fascia sinistra e bombardami di cross la difesa dei tedeschi”.

Così mi ha detto il nostro Mister.

E quando nei supplementari è arrivato quel pallone dalla fascia opposta non ci ho pensato due volte; botta di sinistro al volo con la palla che “gira” giusto giusto per infilarsi a 5 centimetri dal palo opposto.

E’ venuto giù lo stadio.

In quel preciso istante ho capito che anch’io ero diventato un pezzetto di storia del mio amato Club.

https://youtu.be/iLjVhgHoTZg

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E’ il 25 agosto del 2007.

Si gioca al Sanchez Pizjuan di Siviglia.

Siamo quasi alla mezz’ora del primo tempo dell’incontro tra i padroni di casa del Siviglia e il Getafe.

E’ la prima partita della nuova stagione della Liga.

L’inizio è favorevole agli ospiti che trovano il gol dopo soli due minuti di gioco.

Il Siviglia per qualche minuto è scioccato da questo gol a freddo.

Ma poi inizia a macinare gioco, specie sulle fasce dove Navas a destra e la coppia Capel-Puerta a sinistra sta iniziando a produrre gioco e rifornimenti per la coppia di attaccanti Kanoutè e Luis Fabiano.

Poi però accade qualcosa di strano … di inizialmente poco decifrabile.

Un’azione del Getafe finisce con un nulla di fatto e Antonio Puerta, che aveva seguito e controllato l’azione, accompagna il pallone a fondo campo.

Improvvisamente Antonio si ferma e rimane qualche secondo accosciato, come per riprendere fiato dopo una lunga corsa.

Un istante dopo cade a terra, con il corpo in avanti.

Intorno capiscono subito tutti che c’è qualcosa che non va.

Dragutinovic inizia a correre verso Antonio e lui e il portiere Palop sono i primi a soccorrerlo.

Puerta ha perso conoscenza e rischia di soffocare.

Dragutinovic riesce ad estrargli la lingua.

Sono momenti di grande concitazione … e di paura.

Arriva il medico del Siviglia.

Antonio riprende conoscenza, si siede e riesce anche a dire qualche parola.

Compagni di squadra, avversari e i 40.000 del Sanchez Pizjuan tirano un enorme sospiro di sollievo.

Per un attimo pare addirittura che Antonio voglia tentare di riprendere a giocare !

Medico e compagni di squadra lo dissuadono.

Antonio è determinato e testardo.

Lo è sempre stato.

Come quando continuava a rifiutare proposte di prestito da decine di altri Club della Liga.

“Non se ne parla neanche” rispondeva.

“Io rimango qui a lottare per un posto in quella che è l’unica squadra per cui ho sempre sognato di giocare: il Siviglia F.C.”

Così determinato e testardo da volere a tutti i costi uscire dal campo sulle sue gambe.

Il pubblico, il calorosissimo e competente pubblico del Sanchez Pizjuan, gli tributa una ovazione.

Antonio è un ragazzo della “Cantera” e in Spagna, per quelli come lui, l’amore dei tifosi è qualcosa di speciale, di diverso.

Lo salutano e lo applaudono.

Tutti in piedi.

Antonio alza una mano per ricambiare il saluto … abbozza anche un sorriso e poi infila il sottopassaggio verso gli spogliatoi.

… I tifosi del Siviglia non lo vedranno mai più.

Il tempo di arrivare nello spogliatoio, di sedersi su una panca e Antonio verrà colpito da ben 5 attacchi cardiaci consecutivi.

Con un defibrillatore riusciranno a tenerlo in vita fino all’arrivo dell’ambulanza.

Poi la corsa verso il “Virgen del Rocio”, ospedale della città.

Gli attacchi cardiaci si susseguono, senza soluzione di continuità.

Antonio è determinato e testardo.

Lo è sempre stato.

Come quando si ruppe il menisco dieci minuti dopo il suo esordio nella seconda squadra del Siviglia.

“Tornerò più forte e determinato di prima” disse mentre lo portavano fuori dal campo.

E così fece.

Le sue condizioni sono però disperate.

Antonio Puerta continuerà a lottare strenuamente per quasi 3 giorni.

Prima di arrendersi, alle 14.30 del 28 agosto 2007, quando l’ossigeno smetterà definitivamente di arrivare al cervello.

Antonio Puerta aveva 22 anni.

… il 21 ottobre di quello stesso anno, neppure due mesi dopo la sua morte, nascerà Aitor, il suo primogenito.

aitor puerta.jpg

Una foto dalla partita commemorativa del 2016 contro il Boca Juniors. Al centro il piccolo Aitor.

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Antonio Puerta, “l’uomo dal sinistro di diamante”, aveva esordito nell’autunno precedente con la Nazionale spagnola di Luis Aragones e ne sarebbe sicuramente diventato una parte integrante dei successi ottenuti dalle “furie rosse” negli anni a venire.

Ala sinistra o terzino, di quelli che sanno saltare l’uomo, sanno crossare e sanno andar su e giù per la fascia decine e decine di volte a partita.

Ma anche capace di difendere, di pressare e di lottare. “Un vincente nato” lo definirà Joaquin Caparros, l’allenatore che lo fece esordire nel 2004 in una partita di Liga contro il Siviglia.

Il suo avvento permette al Siviglia di cedere l’altra amatissima ala sinistra “prodotto della casa” Juan Antonio Reyes, che ad inizio del 2004 andrà agli inglesi dell’Arsenal per la cifra, allora davvero ragguardevole, di 35 milioni di euro.

Puerta si afferma definitivamente nella stagione 2005-2006 ed è proprio un suo gol nella semifinale di Europa League a permettere al Club andaluso di qualificarsi per la prima finale europea della sua storia, vinta poi in maniera netta e autorevole contro gli inglesi del Middlesbrough.

Nella stagione successiva il Siviglia si conferma ad altissimi livelli.

La squadra lotta fino alla fine su tutti e tre i fronti: Liga, Europa League e Copa del Rey.

Riuscirà ad aggiudicarsi entrambe le Coppe e chiuderà il Campionato al 3° posto dopo essere stato in testa per diverse giornate, cosa che al Siviglia non accadeva da più di 60 anni.

Antonio è una pedina fondamentale nello scacchiere di Juande Ramos e le sue prestazioni allertano ben presto gli osservatori delle più grandi squadre del continente.

Si parla di Arsenal, di Manchester United e soprattutto del Real Madrid, che da tempo ha messo gli occhi su Antonio per coprire la fascia sinistra orfana di Roberto Carlos.

Puerta invece rinnova il suo contratto con il Siviglia.

Per cinque anni. Non ci può essere testimonianza più tangibile del legame di Antonio al Siviglia F.C.

E’ già uno dei leader dello spogliatoio.

Il primo ad arrivare al campo di allenamento, il primo a rincuorare un compagno in difficoltà, il primo a riempire lo spogliatoio di allegria con le sue battute e le sue canzoni.

La sua disponibilità verso i tifosi è ricordata ancora oggi da tutti gli “hinchas” del Siviglia.

Autografi, foto e disponibilità totale. Di lui molti ricordano le innumerevoli volte in cui ha dato passaggi a tifosi al ritorno dall’allenamento … quando per i calciatori attuali “la propria fuoriserie” conta quasi più della moglie …

Di lui restano due meravigliosi tributi.

Il primo è una statua nei pressi del Sanchez Pizjuan raffigurante Antonio ed eretta in suo onore nell’aprile del 2010, esattamente 4 anni dopo il suo storico gol allo Schalke 04 con una scritta sul basamento:

“Il tuo sinistro ci ha regalato un sogno che cambiò le nostre vite dando il via in quel momento ad uno dei periodi più gloriosi della storia del nostro amato Club. Grazie Antonio”.

Ma esiste ancora qualcosa di meglio, di più tangibile e toccante …

In ogni singola partita del Siviglia al minuto 16, il numero di maglia di Antonio, tutto il pubblico si alza in piedi, applaudendo e scandendo il suo nome.

In modo tale che ogni bambino entri in quel magnifico e passionale stadio per la prima volta sia costretto a chiedere al papà  “Chi era babbo Antonio Puerta ?” …

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conoscete una maniera migliore di tramandare una leggenda ?

Infine un piccolo e toccante video-tributo ad Antonio.

https://youtu.be/cyF6A9JSmFQ

 

 

 

Come sempre la prima parte, raccontata in prima persona, non è altro che frutto della fantasia di chi ha scritto questo piccolo tributo ad un calciatore fantastico ma soprattutto ad un ragazzo meraviglioso, amato e benvoluto da tutti quanti.

Mi dicono i miei amici da quelle parti che si raccontano meraviglie di Aitor, suo figlio, e della sua “zurda” magica.

Beh, io lo sto aspettando … un sostenitore, qui in Italia, Aitor ce l’ha già …

https://youtu.be/oyeFHdR9J7E

Storie Maledette: DUNCAN “DISORDERLY” FERGUSON


duncan

“Roba da non crederci ! Tutta colpa di quel segaiolo del terzino dei Raith.

Una sceneggiata così me l’aspetterei da un fottuto sudamericano o al massimo da uno spagnolo o da un italiano.

Quelli come li sfiori li trovi per terra a rotolarsi come margherite quando soffia il vento delle Highlands.

Ma non me lo aspetto certo da uno scozzese purosangue cazzo !

E’ vero che con quel nome lì … “Mc Stay” … cuginetto del capitano di quelli con la maglia da fantini, a righe bianche e verdi orizzontali.

Almeno lui le prende senza strillare come un neonato anche se poi non ha le palle per ricambiarti “il favore”.

Vabbè ammettiamolo … anch’io ci ho messo del mio prima di questa assurda e ridicola farsa.

Qualche casino l’ho combinato in passato ma la pazienza non è mai stata la mia virtù principale.

E se sei un coglione non sto a guardare se sei un taxista, un pescatore o un poliziotto.

Sei un coglione e basta.

Anche in campo è sempre stata così.

Gioca, picchia e prendile.

Ma non rompere i coglioni.

E se non ti va bene allora forse il calcio non è il gioco che fa per te.

Smettila con il football e magari datti a quel gioco da checche che piace tanto agli inglesi, quello dove sono tutti vestiti di bianco immacolati e con un bastone cercano di colpire una pallina.

Gioco che, guarda caso, quassù in Scozia non ha attecchito nemmeno un po’.

Resta il fatto che quei quattro pagliacci della Federazione scozzese questa me la pagano cara.

Per quanto io sia scozzese al 100% e ami visceralmente il mio paese è giusto che sappiano fin da ora che non devono neanche provarci a chiedermi di rimettermi la maglia della Nazionale.

Io con loro ho chiuso.

Anzi.

Ne avevo talmente le palle piene del calcio scozzese che ho accettato di andare a giocare aldilà del Vallo di Adriano, a Liverpool.

Nella parte Blu di Liverpool.

Dove mi hanno accolto in maniera fantastica e dove ho già capito che voglio rimanere per tanto tanto tempo.

Ora però ho qualcos’altro a cui pensare, per almeno 3 mesi.

Quelli che passerò qua a Bairlinnie, il carcere di Glasgow, in compagnia di papponi, spacciatori e rapinatori.

Passeranno anche questi, nessun problema.

In fondo, anche qua come in campo o nella vita di tutti i giorni … basta che non mi rompano i coglioni.

 

Duncan Ferguson fu effettivamente condannato a 3 mesi di reclusione nel tristemente noto carcere di Glasgow per la testata rifilata durante l’incontro tra i Rangers di Glasgow (dove militava allora “Big Dunc”) al difensore dei Raith Rovers John “Jock” Mc Stay, cugino di Paul, capitano del Celtic di Glasgow, rivali storici dei Rangers.

Il fatto che Duncan sia finito in carcere per uno scontro di gioco (e neppure particolarmente cruento) fece assolutamente scalpore all’epoca.

https://youtu.be/yOk8mZhX0Jk

 

Il problema che Ferguson nel giro di un anno o poco più prima della “testata” a McStay si era già reso protagonista di ben tre “incidenti”, con conseguente denuncia fino all’ultimo di questi che fece scattare la “condizionale” nei suoi confronti.

Vittime del suo carattere impulsivo e “focoso” (eufemismo) sono stati nell’ordine un poliziotto, un tifoso del Celtic (in stampelle) alla fermata dei taxi e infine un pescatore in un pub.

La veniale testata a McStay non fu altro che la classica gocciolina che fece traboccare il vaso con la giustizia scozzese.

A quel punto, con la Federazione calcistica scozzese assolutamente passiva e che nulla fece per evitare ad un ragazzo di 24 anni il carcere, Duncan “Disorderly” (come venne ribattezzato dai suoi adoranti tifosi dell’Everton) prese la decisione, mai più ripensata, di non giocare mai più per la Nazionale del suo Paese nonostante TUTTI i selezionatori che si sono via via succeduti sulla panchina della Patria di Robert Burns e di William Wallace abbiano provato e riprovato disperatamente a far cambiare idea al fortissimo centravanti scozzese.

Pensare che Duncan Ferguson era destinato a diventare per la Nazionale di Scozia quello che è stato Joe Jordan per oltre una decade.

Dai sensazionali inizi nel Dundee United al passaggio ai suoi amati Rangers di Glasgow, rifiutando in quel periodo le sirene del campionato inglese e di squadre di alto livello come il Leeds United, il Chelsea e addirittura il Bayern Monaco, dove però le cose non andarono come nelle aspettative generali e dello stesso Duncan.

Chiuso da una coppia di attaccanti affiatata e letale come Ally Mc Coist e Mark Hateley si trovò gli spazi ristretti al minimo.

Il suo carattere irascibile e con scarso autocontrollo lo avevano già messo nei guai con la giustizia scozzese.

Ma proprio nel periodo apparentemente più difficile per Duncan arriva la classica ancora di salvataggio: Mike Walker, manager di un traballante Everton, ottiene in prestito dai Rangers Duncan e il compagno di squadra Ian Durrant, talentuoso centrocampista ma anche lui chiuso nelle gerarchie di squadre dei Blues di Glasgow.

I due accettano di buon grado.

E’ un nuovo inizio.

La primissima partita da titolare per Duncan è nientemeno che il derby contro gli acerrimi rivali cittadini del Liverpool.

Chiunque vedrebbe con impazienza questa partita come occasione perfetta per lasciarsi alle spalle uno dei periodi più turbolenti e tribolati della vita.

Ma Dunc è Dunc … soprattutto è “Duncan Disorderly”.

Il sabato sera, meno di 48 prima del derby previsto per il “Monday night”, Duncan decide di farsi un giro per la città.

In un locale incontra una ragazza con la quale proseguire il tour dei locali e dei pubs più rinomati di Liverpool.

Il tasso alcolico di Duncan arriva ben presto a livelli difficili da gestire … a tal punto che Duncan entra con la sua auto in una stazione degli autobus, assolutamente interdetta alle altre vetture.

Duncan cerca di porvi rimedio ma le sue goffe manovre non fanno altro che attirare l’attenzione di una volante della polizia che lo ferma, verifica che le condizioni di Ferguson non esattamente “consone” e viene accompagnato in caserma.

A questo punto però la sorte decide di dare una mano a Dunc.

Diversi poliziotti tifosi dell’Everton alla stazione di polizia di St. Anne Street lo riconoscono.

Iniziano a passargli bevande zuccherate e acqua in grandi quantità.

Duncan butta giù tutto e quando arriva la prova del test il suo limite è sopra di solo 15 milligrammi.

Non sufficienti per procedere e dopo qualche altra ora passata alla stazione di polizia Duncan verrà rilasciato senza altri procedimenti alle 6 della mattina domenica.

Duncan stesso ammetterà di aver bevuto non meno di 5 bottiglie di vino rosso nelle 24 ore precedenti !

Fatto sta che per il rotto della cuffia Ferguson riesce ad evitare l’arresto per guida in stato di ubriachezza.

Arriva così la sera della partita.

Duncan, per sua stessa ammissione ha recuperato solo parzialmente dalla sbronza di poche ore prima.

Per tutto il primo tempo sarà un fantasma, inutile alla causa dell’Everton e alla sua carriera.

Joe Royle, l’allenatore dei Toffeemen, è tentato di toglierlo alla fine del primo tempo.

Poi cambia idea.

“Sarà una delle decisioni migliori della mia carriera” dirà in seguito.

Ad inizio ripresa Neil Ruddock, il roccioso difensore dei Reds, entra in maniera brutale da dietro su Ferguson.

E’ esattamente quello che ci vuole per Duncan !

“Da quel momento Dunc è come se fosse andato in guerra” dirà Joe Royle a fine partita.

Diventa letteralmente “immarcabile”, una furia scatenata.

Passano pochi minuti.

C’è un corner dalla destra battuto dall’eccellente sinistro di Andy Hinchcliffe.

Nel nugolo di calciatori posizionati nei pressi della porta dei Reds si vede Ferguson saltare mezzo metro buono più in alto di tutti e con una imperiosa “testata” mettere il pallone alle spalle di James, numero 1 del Liverpool.

Goodison esplode.

https://youtu.be/3L8_T5bXNkk

 

E’ nato un idolo. Da quel giorno Duncan Ferguson sarà “culto” puro tra i tifosi dei Blues che per i 10 anni successivi gli perdoneranno praticamente tutto.

Espulsioni, cali di forma, prestazioni incolore e soprattutto decine di infortuni, che ne hanno condizionato in maniera determinante una carriera che poteva essere ben diversa viste le enormi potenzialità di Duncan Ferguson.

duncan e ref

Fortissimo fisicamente, con un sinistro potente e preciso, bravissimo a far salire la squadra giocando spalle alla porta e soprattutto assolutamente insuperabile nel gioco aereo.

Due grandissimi difensori come Jurgen Kohler e Jaap Stam lo hanno definito uno degli avversari più tosti mai affrontati in carriera.

Oltre agli infortuni in serie anche la sua decisione di non giocare più per la Nazionale scozzese dopo il fattaccio costatogli il carcere ne hanno sensibilmente ridimensionato la possibilità di farsi conoscere ad un pubblico più vasto che non fosse quello della Premier League … e hanno probabilmente impedito alla Nazionale scozzese di giocare qualche finale di Coppa del Mondo e degli Europei in più di quelle giocate nelle ultime due decadi.

Infine un aneddoto che definisce Duncan in maniera inequivocabile.

Nel 2001 due ladri (evidentemente non esperti di calcio) scelgono l’abitazione di Duncan Ferguson e della sua famiglia (moglie e tre figli) come obiettivo per un classico furto.

Il problema è che i due si trovano ancora in casa quando Duncan rientra con la famiglia.

Ferguson li affronta e inizia a riempirli di botte ENTRAMBI !

Uno dei due riesce in qualche modo a fuggire mentre l’altro verrà “trattenuto” da Ferguson fino all’arrivo della polizia.

Quando i poliziotti prendono in custodia il malcapitato malvivente si accorgono che prima del carcere occorre portarlo prima al Pronto Soccorso per rimetterlo in sesto dalla gragnuola di calci e pugni ricevuti da “Big Dunc”.

Passerà tre giorni in ospedale prima di venire dimesso.

Problemi per Duncan con la legge ? Eccesso di autodifesa ? Aggressione  o addirittura sequestro di persona ? Niente di tutto questo.

In Inghilterra la proprietà privata è sacra.

E come tale si ha il diritto di difenderla.

Fantastiche le parole di Ferguson subito dopo il fatto quando parlando del malvivente spedito all’ospedale ha commentato “Beh, non ho voluto fargli troppo male. Avevo paura che i miei figli si impressionassero”

Questo è Duncan Ferguson.

A seguire un video in modo che quelli che non conoscono “Big Dunc” possano rendersi conto della bravura di questo fortissimo e “pazzo” attaccante.

https://youtu.be/I-VyYtxfQ2M

 

Come al solito ci tengo a precisare che la prima parte è “romanzata” ed è frutto della fantasia di chi scrive ma fedele a quello che poteva essere lo stato d’animo di Ferguson dopo una condanna tanto assurda e ingiustificata.

Il gergo utilizzato non è esattamente da oratorio … ma neppure Duncan Ferguson lo era.

 

 

Storie Maledette: MALCOLM “SUPERMAC” MACDONALD


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“Questo è l’unico antidolorifico che funziona.

E’ una bottiglia con un liquido ambrato, prodotta a nord del Vallo di Adriano.

Quando questo maledetto ginocchio decide di rendermi la vita un inferno l’unica cosa che riesce a lenire questo dolore che arriva fino allo stomaco e che riesce a togliermi la capacità di fare o pensare a qualsiasi cosa che non sia quella maledetta sera di fine agosto di tanti anni fa.

Giocavamo contro il Rotheram in Coppa di Lega.

I guai erano già cominciati quando ero ancora al Newcastle e a scadenze regolari il mio ginocchio destro godeva a giocarmi brutti scherzi.

Come qualche settimana prima della finale di FA CUP persa contro l’Ipswich dove, giusto ammetterlo, sono stato inguardabile, totalmente inutile alla squadra e avrei fatto meglio a dire “ragazzi, meglio che me ne vada in tribuna, non sono in grado di giocare”.

Ma ammetterlo a se stessi prima ancora che agli altri è davvero dura.

L’estate successiva l’ho passata a curarmi, a fare palestra e a recuperare completamente.

Con 55 reti segnate nelle mie prime due stagioni nei Gunners non vedevo l’ora di tornare in campo.

Nelle prime tre partite della stagione avevo ritrovato le vecchie sensazioni.

D’altronde, con Liam Brady a lanciarmi negli spazi, Graham Rix a rifornirmi di splendidi cross dalle fasce e il Frank Stapleton al fianco a sacrificarsi nel lavoro “sporco” sapevo che di gol avrei ricominciato a segnarne tanti.

Fino a quella maledetta sera.

Per 8 lunghi mesi le ho provate tutte per recuperare.

Fra speranze, ricadute, aspettative e delusioni.

All’Arsenal mi hanno aspettato fino a darmi un’altra opportunità nell’ultima, inutile partita di campionato.

Un derby infrasettimanale contro il Chelsea, due giorni dopo la vittoria in FA CUP contro il Manchester United dove, per inciso, non ero neppure in panchina.

Contro il Chelsea ho segnato è vero, ma è stata l’unica cosa decente che ho fatto in 90 minuti.

Ci riprovo, faccio tutta la preparazione.

Andiamo a fare un tour in Germania.

Sono tornato in prima squadra.

Ma in allenamento, in un banale cambio di direzione, il ginocchio cede ancora.

Una settimana dopo Terry Neill, Don Howe e lo staff medico dell’Arsenal mi hanno dato il benservito.

“Con quel ginocchio lì pensare di giocare ancora a calcio è follia”.

Per certe notizie, anche se dentro di te lo sai BENISSIMO, non sei MAI pronto.

Ma io sono un testone.

Lo sono sempre stato.

Prima di appendere gli scarpini al chiodo ho voluto provare, contro il parere di tutti, medici, famigliari e amici, a tornare a giocare.

Dove ?

In Svezia.

Chissà … forse convinto che il freddo e un campionato meno competitivo potessero ridare forza ad un ginocchio obiettivamente distrutto.

Tutto inutile.

Da lì è iniziata una lenta discesa verso l’inferno, fatto di dolori atroci e di rimpianti per quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere.

Divorzi, attività commerciali andate a rotoli, patenti ritirate per guida in stato di ebbrezza e persone che ci hanno messo un nanosecondo a dimenticarsi di te … di “Supermac” come mi aveva ribattezzato il meraviglioso popolo Geordie fin dalle mie primissime esibizioni con la maglia del Newcastle.

Ora invece, come consolazione, c’è solo lei.

Una bottiglia con un liquido ambrato, prodotto a nord del Vallo di Adriano.”

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Per Malcolm Macdonald, uno dei centravanti più forti, esplosivi, coraggiosi, sfrontati, egoisti e letali della storia del calcio inglese degli ultimi 50 anni, la vita per fortuna ha “svoltato”.

Gli anni della “bottiglia di whisky al giorno” e dei dolori lancinanti del suo malandato ginocchio destro sono ormai alle spalle.

La rinascita per “Supermac” è iniziata grazie all’interessamento di un amico, uno dei pochi rimasti quando invece tutti gli altri diventano bravissimi ad imitare la fortuna … girandoti cioè le spalle dopo che ti hanno accarezzato, coccolato, lisciato e leccato il culo per anni.

Micky Burns si è presentato a casa di Macdonald e gli ha messo davanti la realtà.

“Malcolm il tuo problema non è la bottiglia ma il tuo dannato ginocchio”.

“Noi penseremo a rimetterti a posto quello. Il resto dipende da te”.

Queste le parole di Micky Burns.

Curato quello, con una operazione delicatissima completamente finanziata dalla Football Association inglese di cui Micky fa parte con il compito di aiutare in tutti i modi possibili calciatori ed ex-calciatori in difficoltà, Malcolm Macdonal ha ricominciato a vivere.

Una nuova famiglia (la sua compagna Carol è la ex-moglie di Brian Johnson, cantante degli AC/DC), nuovi interessi e nuovi stimoli.

Ora Macdonald è un uomo nuovo e il suo aspetto fisico rende difficile credere che ormai sia vicino alla soglia dei 70 anni.

La sua carriera è stata una continua, strepitosa ascesa.

Dagli inizi con il Fulham (voluto da Sir Bobby Robson) all’esplosione con il Luton, il trasferimento al suo adorato Newcastle United dove è assurto allo status di semidio per il focoso e appassionato popolo Geordie.

Nel periodo ai “Magpies” arriva anche la Nazionale.

Non è fortunato però; Sir Alf Ramsey, che stravede per lui, da li a poco viene esonerato.

Al suo posto arriva Don Revie, amato e venerato a Leeds ma odiato e inviso praticamente in ogni altra landa d’Inghilterra.

Don Revie non può non convocare Macdonald che sta segnando caterve di gol con il Newcastle, ma il feeling tra di due non vuole proprio sbocciare.

Si arriva così ad una partita di qualificazione per i campionati europei.

Si gioca a Wembley contro Cipro.

Malcolm Macdonald viene schierato con il numero 9 ma poco prima di scendere in campo, con un tatto davvero ammirevole (!) Don Revie nello spogliatoio gli dice “Sappi caro il mio Macdonald che questa con me è la tua ultima occasione: se non fai gol stasera con me e con la Nazionale inglese hai chiuso”.

Malcolm rimane sbigottito.

Per sua fortuna sono tanti quelli che non amano Revie in quella Nazionale.

Primo fra tutti Alan Ball, unico sopravvissuto dei campioni del Mondo di 9 anni prima.

Lui, Mick Channon e Alan Hudson sono indispettiti e arrabbiati per il trattamento subito da “Supermac”.

Lo prendono da parte pochi minuti prima della partita e gli comunicano che “Stasera Mac giocheremo tutti per te. Non fermarti al primo gol e neppure al secondo. Stasera andiamo a riscrivere il libro dei record e tu sarai il protagonista … e daremo una bella lezione a quel pallone gonfiato !”

Qua sotto è come andrà a finire …

https://youtu.be/8KOYSdtGYMQ

Malcolm diventerà il giocatore inglese che nel dopoguerra avrà segnato più reti nella stessa partita con la maglia dei bianchi d’Inghilterra.

L’anno successivo, nel pieno della sua forma psico-fisica, l’Arsenal decide di abbatterne un altro di record facendo diventare Malcolm Macdonald il giocatore più costoso della storia del calcio inglese:

333.333, 34 sterline, esattamente un terzo di milione è quanto spendono Terry Neill, manager dei Gunners londinesi e Hill-Wood, presidente dell’Arsenal, per assicurarsi le prestazioni di questo grande attaccante.

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Le lacrime e la disperazione del popolo di Newcastle diventano i sorrisi e la felicità di quello del Nord di Londra dove l’Arsenal, con l’arrivo di Supermac, è pronto a lasciarsi alle spalle alcune stagioni deludenti dopo aver vinto il “double” solo un lustro prima.

Per due stagioni Supermac tiene abbondantemente fede alle promesse.

Segna con impressionante regolarità.

Ben 55 reti in 102 partite.

Alcuni dei suoi goal sono un autentico spettacolo di potenza e acrobazia, le doti principali di Mac.

Ma già nella seconda stagione il ginocchio destro inizia a mandare messaggi preoccupanti di cedimento.

Un’altra “pulizia” alla cartilagine, legamenti sempre più fragili …

Si arriva così alla maledetta notte di Rotheram dove il legamento crociato di Macdonald si spezza.

Lunghi mesi tra sale operatorie, palestre di rieducazione, tentativi di tornare in campo.

Come detto Macdonald rientrerà all’ultima di campionato della stagione 1978-1979.

Sono passati  quasi 9 mesi dall’infortunio di Rotheram.

Macdonald segna nell’1 a 1 finale.

La stagione successiva riparte con grande entusiasmo.

L’Arsenal sta tornando finalmente ai vertici del calcio inglese.

In bacheca è stata appena depositata una FA CUP fresca fresca vinta a maggio in una memorabile finale contro il Manchester United.

Supermac non vede l’ora di riformare la coppia d’attacco con il giovane e fortissimo irlandese Frank Stapleton, partner ideale per Malcolm.

In Germania, nel tour precampionato, il ginocchio cede ancora.

La diagnosi è spietata.

Nel 1979 recuperare una volta da un infortunio del genere è già un mezzo miracolo.

Farlo una seconda volta è praticamente impossibile.

L’Arsenal nei primi giorni di agosto del 1979 comunica la decisione a Macdonald.

Fine dei giochi.

In contratto è terminato e nessuno può pensare di rinnovarlo in quelle condizioni.

A 29 anni si chiude il sipario.

Se ne apre un altro, come detto sempre più doloroso e complicato.

Poi arrivi Micky Burns e con lui Supermac risale la china.

Stavolta definitivamente.

E’una storia maledetta ma il finale, per una volta, è felice.

supermac oggi

 

A seguire il fantastico video del debutto di Malcolm Macdonald con il Newcastle.

https://youtu.be/skqVVIJdOAI

(I ragazzini che entrano in campo a festeggiare ogni goal sono da pelle d’oca … un calcio che sembra di un’altra era …)

 

 

 

COME SEMPRE LA PARTE INIZIALE RACCONTATA IN PRIMA PERSONA E’ FRUTTO DELLA “FANTASIA” DEL SOTTOSCRITTO ANCHE SE CORROBORATA COME AL SOLITO DA DECINE DI INTERVISTE E ARTICOLI SU QUESTO CALCIATORE.

MI PREME RINGRAZIARE, ANCHE SE DI SICURO NON LEGGERANNO MAI IL MIO PICCOLO BLOG, IL “THE GUARDIAN” GIORNALE MERAVIGLIOSO E UNICO, A MIO PARERE, NEL PANORAMA MONDIALE.

Remo Gandolfi

STORIE MALEDETTE: FRANK WORTHINGTON


“IL GEORGE BEST DELLA CLASSE OPERAIA”

frank 1

Stavolta ci voglio provare davvero !

Giuro !

D’altronde se ti chiama direttamente Bill Shankly non puoi non prendere sul serio la cosa.

Mi vuole con lui al Liverpool.

Ragazzi ! Al LIVERPOOL !

In Inghilterra è praticamente impossibile sperare in qualcosa di meglio.

Ok, Leeds e Arsenal sono squadroni e il Manchester United ha sempre un grande prestigio, ma il fascino dei Reds e del suo manager non hanno rivali.

Era da un po’ di tempo che mi dicevano che al Leeds Road avevano visto prima Joe Fagan e poi Bob Paisley a vedere le partite dell’Huddersfield.

Beh, di sicuro sono tornati dopo che a febbraio ci abbiamo giocato contro qui da noi !

La serata prima del match l’ho passata al The Royal Swan, l’unico pub di Huddersfield dove puoi sperare di rimorchiare qualche ragazza decente.

Quella sera non avevo alcuna intenzione bellicosa !

Giuro !

“Mi faccio due birre con Mike e Tommy e poi a nanna” mi sono detto.

Poi è arrivata lei.

Una autentica bellezza della natura ma di quelle bellezze con cui la natura decide di giocare quegli scherzi che a noi maschietti piacciono tanto …

Si perché così alta, magra e con fianchi stretti che sembrano disegnati non ci sta proprio che abbia anche due bocce del genere !!!

Si è seduta al nostro tavolo insieme all’amica e ha iniziato a parlare con Tommy.

“Con Tommy ?” ho pensato.

Tommy di solito è quello che in gruppetto di tre ragazze si becca … la quarta !

Neanche un minuto dopo però tutto è tornato nella normalità.

Si è girata infatti verso di me “Ciao, io sono Madeleine, Maddy per tutti”.

“Perfetto. Allora io ti chiamerò Madeleine visto che io non sono “tutti” …

Ok, stringiamo.

Abbiamo passato la notte da me e dopo aver dormito si e no tre ore quando le ho detto che di lì a poco sarei dovuto uscire per andare a giocare a calcio ha sgranato gli occhioni e mi ha sussurrato un “te ne vai e mi lasci così ?”

Ovvio che no ! Secondo voi si può ?

Contro il Liverpool mi sono trascinato per novanta minuti e per fortuna che sono uno di quei pochissimi giocatori rimasti in giro che anche nelle giornate peggiori (e quella era decisamente una di quelle giornate) qualcosa può sempre inventarsi per cui il Boss Ian Greaves ha deciso di tenermi in campo fino alla fine.

Fatto sta che più o meno una settimana fa mi chiama proprio lui, Bill Shankly.

“Aye figliolo. Mi dicono tutti che sai giocare a calcio. Mercoledì sera ti ho visto contro il Coventry e me ne sono convinto anch’io. Ti vogliamo qui con noi all’Anfield. Sai figliolo, qui vogliamo vincere tutto e con tre attaccanti come te, Keegan e Big John Toschack sono sicuro che sarà molto più facile” mi dice il Boss con il suo clamoroso accento scozzese.

Poi mi da appuntamento per il martedì mattina successivo.

Visite mediche e firmiamo il contratto.

“Ok Boss” gli rispondo entusiasta.

Poi subito dopo ho pensato “merda ! Il giorno prima è un “Bank Holiday”

“Cavoli, una serata di festa e a me toccherà starmene buono in casa” ho pensato.

“Vabbè Frank” mi son detto “Mi sparo qualche disco del mio adorato Elvis e poi a nanna.

Volevo farlo davvero !

Giuro !

Ma come si fa a starsene in casa in una giornata di festa ?

Claire la conoscevo gìà e quando mi ha chiamato per andare “a bere una cosa” a Manchester non ci ho pensato due volte.

Che spasso di ragazza !

Sia quando è in piedi che quando è coricata …

Fatto sta che quando mi sono presentato a Liverpool martedì mattina ammetto che non ero esattamente un fiore.

“Figliolo, non ti bastano i soldi che guadagni con il calcio ? Fai anche i turni di notte in fabbrica ?” mi da detto Shankly appena mi ha visto.

Barcollando ho fatto praticamente tutto quello che mi hanno chiesto i medici del Liverpool e avevo già praticamente la penna in mano per la firma.

Poi però è arrivata la sorpresa, assai poco piacevole: pressione sanguigna completamente fuori dai parametri accettabili per uno di neppure 24 anni.

Me l’hanno provata 3 volte.

Sempre uguale.

“Figliolo, in queste condizioni non puoi giocare a calcio” mi ha detto il cortese e allibito medico sociale del Liverpool.

Mi accompagna nell’ufficio di Shankly e gli spiega la situazione.

Il manager scozzese aggrotta le sopracciglia e rimane in silenzio per due minuti buoni.

Mi gioco l’ultima carta “Probabilmente sono ancora sottosopra per la morte di mio padre Boss che se ne è andato il mese scorso” gli faccio.

“Sa, gli ero davvero molto affezionato”

Il che è verissimo per l’amor di Dio ! … ma dubito che possa aver influenzato a tal punto la mia pressione sanguigna.

L’espressione del volto di Shankly non cambia di una virgola.

“E’andata” penso.

Il famoso treno che dicono passi una sola volta nella vita me lo sono visto sfrecciare davanti giusto un attimo fa.

E non ci sono salito sopra.

Addio Liverpool e sogni di gloria.

Shankly finalmente si riprende e torna tra noi.

Si schiarisce la gola “il fatto figliolo è che io ti voglio qua con me all’Anfield”.

Poi si rivolge al medico.

“Forse questo ragazzo ha solo bisogno di riposare un po’”

Mi illumino. Non tutto è perduto.

“Doc” continua Shankly “mandiamolo una settimana a Majorca. Un po’ di sole e di tranquillità lo rimetteranno a nuovo. Quando torna rifacciamo tutto daccapo e poi gli facciamo firmare il contratto”.

Questa l’idea di Shankly.

E ora sono qua, sull’aereo per la Spagna.

“Devi solo fare il bravo una settimana Frank” continuo a ripetermi.

“Forza, cosa vuoi che sia una settimana ? Al ritorno ci sono Bill Shankly e il Liverpool che mi aspettano a braccia aperte”

… certo però che le due bionda nella fila opposta alla mia sono proprio uno schianto !

Vabbè, vado a fare due chiacchiere e a offrirgli un drink … mica faccio nulla di male …

 

Quando Frank Worthington torna dalla vacanza a Marbella durante la visita medica al Liverpool le cose, se possibile, vanno ancora peggio.

Il Liverpool si rifiuta di mettere sotto contratto il giocatore e di pagare le 150.000 sterline richieste dall’Huddersfield per il suo cartellino.

Per lui sfuma l’opportunità di entrare in uno dei teams più prestigiosi e vincenti d’Inghilterra.

L’Huddersfield è appena retrocesso in Seconda Divisione.

L’unica offerta concreta per lui arriva dal Leicester, squadra con ambizioni assai più modeste dei Reds di Anfield.

Frank Worthington però a calcio ci sa giocare davvero.

E’ un centravanti alto, forte fisicamente ma a lui interessa avere la palla tra i piedi, inventare giocate, saltare l’uomo in dribbling, segnare gol spettacolari.

Si vuole e vuole divertire.

Dirà più di una volta che “il modo in cui gioco e più importante per me che la squadra vinca o perda”.

E’ un individualista.

Lo è nel campo di calcio e lo è nella vita.

Il suo idolo assoluto è Elvis.

La sua passione le donne.

Nel 1972 esce regolarmente con Miss Great Britain, un’avvenente signorina di nome Elizabeth Robinson ma non si limita certo a lei.

Sempre in quella estate, quella del suo frustrato passaggio al Liverpool, Sir Alf Ramsey lo convoca per l’under 23.

Worthington si presenta con stivali da cowboy, una maglietta di seta rossa e una giacca di pelle color giallo limone.

“Ma questo viene con noi a giocare a calcio a va all’Isola di Wight ?” si domanda un più che perplesso Ramsey.

Al Leicester mostra appieno tutte le sue qualità.

Segna regolarmente ma soprattutto gioca in maniera sublime.

Nel 1974, nel breve interregno di Joe Mercer come Selezionatore della Nazionale dei bianchi di Inghilterra dopo la mancata qualificazione ai Mondiali tedeschi, finalmente Frank trova spazio in Nazionale.

Gioca 8 partite, segna 2 gol ma il suo stile di gioco, la sua tecnica, il suo amore per la giocata di fino fanno innamorare gran parte dei tifosi inglesi.

Poco dopo però arriverà Don Revie, ex-manager del Leeds United.

Per “pazzi” come Frank non c’è posto nella Nazionale organizzata, disciplinata ed efficiente che ha in mente Revie.

“Lui voleva degli “yes-men”, pronti ad immolarsi per le sue assurde tattiche, ad ascoltare per ore i report sulle squadre avversarie e a provare e riprovare i suoi schemi” dirà Worthington in merito alla sua esclusione dalla Nazionale.

Al Leicester Worthington rimarrà ben cinque stagioni, segnando con regolarità e giocando sempre ad ottimi livelli anche se la Nazionale e la chiamata di un grande Club rimarranno sempre e solo speranze vane.

La sua vita fuori dal campo non cambierà di una virgola.

Miss Gran Bretagna e Miss Barbados sono solo due delle tantissime conquiste di Frank che continuerà a frequentare locali, a bere come se non ci fosse un domani e anche, come da lui stesso ammesso nella sua celebre autobiografia “One Hump or Two ?” a sperimentare diversi tipi di droghe, leggere e meno leggere.

Dopo la lunga (per i suoi parametri) parentesi al Leicester è il suo vecchio Manager Ian Greaves che lo porta a Bolton, in Seconda Divisione.

Con i suoi gol il Bolton torna in First Division e addirittura nella prima stagione nell’elite del calcio inglese Frank Worthington vincerà la classifica marcatori segnando la bellezza di 24 reti e arrivando davanti a calciatori del calibro di Kenny Dalglish, Frank Stapleton o David Johnson.

Proprio in questa stagione Frank segnerà uno dei gol più belli e “geniali” di tutta la storia del calcio inglese, per fortuna ancora a disposizione su you tube

https://youtu.be/W0z_arXZ8nM

Dopo il Bolton inizierà per Frank un vagabondaggio calcistico infinito tra Inghilterra e Stati Uniti.

Esperienze più o meno positive, tra cui sicuramente spiccano quella successiva al Birmingham o i sei mesi o poco più giocati al Leeds United (14 reti in 34 partite) e in ogni caso di Frank stupisce la incredibile longevità agonistica considerando il suo stile di vita.

Alla domanda “Frank, pare che ora passati abbondantemente i 30 anni tu abbia messo la testa a posto” ? gli chiede un giornalista televisivo.

“Assolutamente vero amico mio ! Prima uscivo sette sere su sette. Obiettivamente non è possibile per un giocatore professionista ! … ora esco solo sei sere su sette …

I suoi ultimi gol nel calcio professionistico Worthington li segna per lo Stockport County in quarta divisione.

E’ il 1987-1988. Frank ha quasi 40 anni.

Per chiudere, le sue parole in una bella intervista di qualche anno fa.

“So di non essere stato un angioletto ma niente quando giocavo contava più del calcio. Inutile però andare contro la propria indole. Certo, se avessi giocato nel Liverpool avrei potuto vincere trofei e magari giocare di più per la mia Nazionale.

Ma sono un uomo e non ho nessuna intenzione di accampare delle scuse.

Quella si che sarebbe una debolezza.

Ho sempre saputo chi ero e quello che volevo fare”

 

Come sempre la prima parte è fantasia dell’autore ma come sempre è stata raccolta da un’approfondita ricerca e da stralci di diverse interviste e aneddoti su Worthington, uno degli ultimi grandi personaggi del calcio britannico di un periodo genuino e romantico che sembra però lontano anni luce.

Storie Maledette: EDGARDO “EL RUSO” PRATOLA


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Alla mia età, a 31 anni, si inizia sempre più spesso a pensare a cosa fare “da grandi”.

Alla fine cioè, della carriera di calciatore e ai pochi anni di calcio giocato che rimangono.

Restare nel calcio ? Fare l’allenatore ? Il Direttore Sportivo ? O magari lavorare con i giovani ?

Oppure cambiare completamente strada e  dedicarsi ad altro ?

Questi sono, o dovrebbero essere, i pensieri per un calciatore della mia età.

Io non avrò questo lusso.

Per me non si parlerà di “anni”.

Ma di mesi … forse addirittura di settimane.

E non per colpa di un ginocchio o di una caviglia.

Per colpa di un maledetto cancro.

I medici non ci hanno girato troppo intorno.

E’ un tumore al colon che si sta estendendo a macchia d’olio nel mio corpo,

Non mi rimane molto tempo.

Questo vuol dire che per me non si tratterà di dire addio solo al calcio, ai miei compagni di squadra, ai tifosi e alla mia adorata maglia dell’Estudiantes.

Dovrò dirlo a mia moglie, la mia adorata Ana Laura e alle mie splendide bimbe, Camila e Lara.

Prima però voglio giocare ancora una partita almeno, una sola.

L’Estudiantes non me lo negherà, lo so.

Ho già perso quasi 5 kg di peso in poche settimane ma fra pochi giorni ci sarà il derby contro il Gimnasia.

Voglio esserci.

Devo esserci.

Poco importa se quel giorno sarà uno di quelli “balordi” dove dentro mi sembra di sentire gli artigli di un leone inferocito o dove per liberarmi la pancia dovrò prendere una dose doppia di lassativi.

Magari giocherò anche male e forse non lascerò un gran ricordo ai nostri tifosi che mi vedranno quel giorno.

Poco importa.

Quella partita conterà per me, perché voglio avere un ricordo con cui crogiolarmi nei mesi che dicono mi restano da vivere.

Si, lo faccio per me.

Sono egoista ? Forse

Ma credetemi … a questo punto non mi interessa granché.

Voglio rimettermi gli scarpini ai piedi per l’ultima volta, per l’ultima volta voglio risentire la puzza dell’olio di canfora negli spogliatoi, per l’ultima volta voglio sentire le grida dei miei compagni prima di scendere in campo … e per l’ultima volta voglio sentire il calore dei nostri tifosi quando entreremo nella cancha.

Voglio rimettermi per l’ultima volta la maglia del “Pincha”, la squadra che sempre amato e per cui facevo il tifo da bambino e con la quale ho avuto la fortuna di giocare 233 partite.

Voglio per l’ultima volta correre sul prato del Jorge Luis Hirschi dove mi sono divertito come un matto per tanti anni.

Se poi riuscirò ancora a vincere qualche duello aereo, a fare qualche bel tackle e magari mandare a gambe all’aria un avversario o due … beh, avrò ricordi ancora migliori da portare con me.

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Il 27 aprile del 2002, a 32 anni, Edgardo Fabian Pratola detto “El Ruso”, perderà la sua battaglia contro il cancro.

Poco più di un anno dopo dall’aver realizzato il suo ultimo sogno.

Si perché Edgardo Pratola giocò, e vinse, la sua ultima partita, quella contro i rivali storici dell’Estudiantes, quelli del “Lobo” del Gimnasia Y Esgrima La Plata.

Edgardo, nato a La Plata il 20 maggio del 1969, si fece tutta la trafila delle giovanili dell’Estudiantes prima di approdare alla prima squadra nella quale esordì a 19 anni.

Con i “Pinchas” rimase fino al 1996, conoscendo nel giro di meno di un anno la delusione per una retrocessione in Segunda e la immediata risalita in Primera durante una trionfale stagione per di più giocata con al braccio la fascia di capitano.

Poi il trasferimento in Messico, nelle file del Leon, squadra di vertice di quel campionato.

“El Ruso” vi rimarrà per tre stagioni prima di rientrare in Argentina.

Una stagione con l’Union de Santa Fe prima dell’agognato ritorno nelle fila del “suo” Estudiantes nel 2000.

La gioia per il ritorno nel suo adorato Club è però di breve durata.

Nei primi mesi del 2001 gli viene diagnosticato un tumore al colon.

La dignità, il coraggio e la determinazione con cui Edgardo lotterà per più di un anno contro questo male spietato saranno  un ricordo indelebile per tutti quelli vicino a lui, famigliari, amici e tutta la società dell’Estudiantes.

“El Ruso” era profondamente amato e rispettato per le sue grandi doti umane.

Calcisticamente non era un fenomeno, non aveva ne grande tecnica e neppure grandi doti naturali.

Ma era un combattente nato, aveva cuore e coraggio.

Picchiava come un fabbro ferraio !

Fino al maggio del 2014 deteneva il record di espulsioni nel campionato argentino !

Ben 19, cifra niente male considerando anche che ai suoi tempi il calcio argentino era molto più duro e fisico di oggi e gli arbitri assai più tolleranti.

Era in pratica il prototipo del “2” che in Argentina è da sempre lo stopper, quello che deve semplicemente fermare, con le buone (raramente) o con le cattive (assai più spesso) il centravanti avversario.

L’Estudiantes si comporterà fino all’ultimo in maniera splendida nei confronti di Edgardo, una delle storiche “bandiere” di questo Club.

Gli verrà offerto addirittura un ruolo nello staff tecnico di Mister Nestor Craviotto ma i medici si oppongono fermamente.

Non ci sono le condizioni sufficienti per un fisico già così minato dalla malattia.

Una delle ultime grandi gioie gliela regalano i suoi compagni di squadra al termine di un altro derby vittorioso contro i rivali del Gimnasia.

E’ il 22 gennaio del 2002 e nei festeggiamenti di fine gara il compagno di squadra e grande amico personale Mauricio Piersimone se lo mette sulle spalle e lo porta in giro per il campo davanti ai propri tifosi e a quelli altrettanto meravigliosi del Gimnasia che nonostante la caldissima rivalità mostreranno quella sera e in altre occasioni il loro appoggio e il loro sostegno ad un grande e leale avversario.

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La mattina del 27 aprile, solo tre mesi dopo quell’indimenticabile sera, Edgardo Pratola spirerà nell’Ospedale Italiano di Mar de la Plata.

Poche ore dopo l’Estudiantes ha in programma un importante incontro di campionato con l’Independiente.

L’incontro verrà disputato ugualmente e pare proprio che “El Ruso” lo abbia espressamente chiesto a compagni e dirigenti nei giorni precedenti.

Le ultime parole sono al padre Natalio, poco prima di morire.

“Ricorda ogni giorno alle mie “ragazze” (Camila di 3 anni e Lara di undici mesi) di affrontare la mia morte semplicemente come una cosa in più che fa parte della vita.

 E di andare avanti, lottando sempre per i loro sogni”

 

 

Come sempre tengo a precisare che il racconto in prima persona è opera del sottoscritto autore del pezzo ma è basata come sempre su interviste, testimonianze e articoli su questo grande e sfortunato calciatore.

Remo Gandolfi

HURACAN 1973: La squadra migliore che nessuno (o quasi) ha mai visto


huracan 1973 1

Mi si perdonerà il titolo rubato ad una delle più belle biografie calcistiche di sempre (quella sul “maverick” Robin Friday) ma davvero non riesco a pensare a qualcosa di più appropriato per raccontare di una squadra che ha rappresentato una pietra miliare nella storia del calcio argentino.

Qualcuno è arrivato a dire che c’è stato un “prima” e un “dopo” Huracan … un po’ come successe esattamente in quegli anni in Europa con il grande Ajax di Rinus Michels.

Di sicuro c’è che il calcio espresso da questo team nella magica stagione del 1973 ha davvero rappresentato una svolta epocale per il calcio argentino.

Dopo anni e anni di calcio “resultadista” , basato sulla forza fisica, su una difesa aggressiva e su una ferrea disciplina ed organizzazione di gioco che se a livello di Club ottenne importanti risultati, grazie soprattutto all’Estudiantes che ne fece un “arte” di questo modello di gioco diciamo così … pragmatico, non altrettanto si può dire dei risultati della Nazionale biancoceleste che dopo la polemica e mai digerita eliminazione subita dall’Inghilterra nei Mondiali del 1966 fu addirittura incapace di qualificarsi per i mondiali successivi, quelli di Messico 1970.

Il calcio argentino insomma, aveva perso la bellezza.

Quello della “Nuestra”.

Quello della “maquina del River” negli anni ’40 o quello della Nazionale delle “facce sporche” degli anni ’50 per intenderci.

La “Nuestra” non apparteneva più alla tradizione argentina, il famoso “calcio criollo” quello cantato dalla poesia di Eduardo Galeano e che così definiva il passaggio storico in cui gli Argentini si impossessarono del calcio, esprimendo attraverso il loro modo di giocare, individualista e creativo, la repulsione verso il “kick and run” degli inglesi che in Argentina esportarono il calcio ma che pretendevano si giocasse a modo loro.

L’amore incondizionato degli argentini verso l’autentica passione nazionale chiedeva a gran voce una “contro svolta”.

Tutto molto bello nelle intenzioni ma per farlo occorreva innanzitutto un visionario talmente coraggioso da andare completamente contro i dettami dell’epoca, fatti come detto di difese arcigne, tanta corsa, fallo tattico esasperato e, termine blasfemo fino a pochi anni prima, utilizzo di catenaccio e contropiede in puro stile italico.

In questa situazione apparentemente senza via di uscita arriva un uomo, pronto a fare la rivoluzione.

Guarda caso anche lui di Rosario, come il più celebre rivoluzionario argentino della storia.

Si chiama Cesar Luis Menotti e con il suo Huracan fa capire fin dall’inizio che vuole percorrere una strada totalmente diversa.

huracan 2

L’approccio di Menotti è di quelli che spiazzano, che provocano e scuotono le coscienze calcistiche.

“Da quando per giocare bene a calcio bisogna CORRERE ???!!!” è la frase simbolo  del “Flaco” in quel periodo.

Esagerata, estrema forse … ma che comunque ha l’obiettivo, centrato, di minare dalle fondamenta il credo calcistico di allora.

La palla è quella che deve “correre” e lo deve fare passando da giocatore all’altro della stessa squadra, sapendola gestire, accarezzare … coccolare.

Perderla è la vera sofferenza.

Il giocatore deve tornare a sentirsi libero di creare, prendendosi il coraggio di rischiare una “gambeta” o un “cagno”.

Solo così cresce l’autostima, solo così si trasmette positività a tutto il team.

… solo così ci si diverte e soprattutto SI diverte il pubblico.

L’impatto di Menotti è devastante.

Già nel Metropolitano del 1972 l’Huracan si distingue per il suo calcio offensivo e spettacolare e raccoglie un ottimo 3° posto alle spalle di San Lorenzo e Racing Club ma segnando più gol di tutti gli altri teams e piazzando due dei suoi giocatori, Brindisi e Avallay, ai primi due posti della classifica marcatori, con 21 e 17 reti rispettivamente.

Manca però ancora qualcosa.

Manca la scintilla definitiva, quella che faccia diventare l’Huracan la squadra più forte di tutte.

Come “regalo di Natale” poco prima dell’inizio del Nacional del 1973 Cesar Luis Menotti chiede alla dirigenza del Huracan di acquistargli un ventenne praticamente sconosciuto che gioca ala destra in serie C, nel Defensores de Belgrano.

“Vedrete” dice El Flaco ai suoi dirigenti “con lui diventeremo imbattibili”

La cifra è importante ma Menotti lo vuole a tutti i costi e così Renè Orlando Houseman viene acquistato.

Al suo arrivo in sede le reazioni di presidente e dirigenti dell’Huracan sono di due tipi, diametralmente opposte.

A qualcuno scappa da ridere a qualcuno invece verrebbe da piangere pensando a tutti i pesos spesi !

Renè Orlando Houseman è piccolo, praticamente pelle e ossa, capelli lunghi che non vedono un pettine probabilmente da settimane, non rasato e vestito quasi come un senzatetto.

Il tempo di vederlo in campo per capire che, anche stavolta, aveva ragione lui, El Flaco.

Anzi, la frase più ricorrente era diventata “Ma com’è che questo fenomeno non lo aveva ancora comprato nessuno ?”

Con l’arrivo di Houseman i pezzi del puzzle vanno ad incastrarsi alla perfezione.

In porta c’è Roganti, sicuro e affidabile, terzino destro “El Buche” Chabay, agile e bravo in fase di spinta, terzino sinistro lui, “El Lobo” Carrascosa, elegante, preciso e tenace.

In mezzo alla difesa Buglione, tipico stopper di allora, durissimo e forte in marcatura e al suo fianco il grande “Coco” Basile, già un allenatore in campo, leader assoluto della squadra e con una sapienza tattica eccelsa.

Francisco Russo era il classico “5”, il frangiflutti davanti alla linea difensiva. Ordinato, intelligente, umile. Non per niente il suo soprannome era “Fatiga”.

Le due mezzali sono due geni.

Mezzala destra è Miguel Angel Brindisi, uno dei più grandi calciatori argentini di tutti i tempi.

Creativo, tecnico, eccellente negli inserimenti e spietato in zona gol.

Mezzala sinistra “El Ingles” Carlos Babington, mancino di qualità immensa, con una precisione nel passaggio estrema e di grande tecnica individuale.

In attacca a sinistra c’è Omar Larrosa (che farà parte del gruppo che nel 1978 vincerà i Mondiali) giocatore potente, predisposto alla corsa e al sacrificio e bravo a tagliare al centro per andare a concludere.

Centravanti è Roque Avallay, non un fenomeno ma molto intelligente e abile nel creare spazi e impegnare i centrali avversari.

A destra lui, “El Loco” Houseman, 165 centimetri di estro, follia calcistica e talento. Uno dei primi grandi e veri “ribelli” del pallone.

Menotti lo sa e lascia libero lui, Brindisi e Babington di creare, di inventare calcio.

L’Huracan di quel 1973 diventerà l’emblema della rinascita.

Triangolazioni strette, tocchi di prima, dribbling vertiginosi, ragionato possesso palla e poi verticalizzazioni improvvise  … e tanti tantissimi gol.

In un calcio argentino che in quel momento brillava per la rudezza e la solidità delle difese, per il tatticismo esasperato e difensivista segnare 46 gol nelle 16 partite del girone di andata è qualcosa di straordinario

Vittorie sonanti e di larga misura come il 6 a 1 all’esordio contro l’Argentinos Juniors, o un 5 a 0 al Racing Club non erano un eccezione.

Di una partita in particolare si ricordano ancora i vecchi hinchas del “Globo”.

Una vittoria in trasferta per 5 a 0 sul difficilissimo campo del Rosario Central, squadra allora ai vertici del calcio argentino.

Alla fine di quell’incontro accade qualcosa di assai raro nel mondo del calcio e soprattutto a quelle latitudini dove la passione e l’amore per i propri colori spesso acceca completamente l’obiettività sportiva: praticamente tutto il pubblico di fede “Canallas” si alza in piedi a fine partita ad applaudire l’Huracan, riconoscimento estremo per una dimostrazione di calcio di bellezza rara.

Quel periodo magico purtroppo durerà molto poco.

Già al termine del girone d’andata la Nazionale Argentina iniziava la sua preparazione per il Mondiale Tedesco del 1974 e l’Huracan si vede portar via ben 5 dei suoi profeti; Brindisi, Babington, Carrascosa, Larrosa e ovviamente Houseman.

Un campionato che sembrava già in bacheca torna così prepotentemente in discussione.

A quel punto, privato di 4 dei suoi 5 attaccanti, l’Huracan di Menotti fa di necessità virtù trasformando la difesa nella sua arma migliore, pur continuando ad esprimere un ottimo calcio.

12 soli gol concessi nel girone di ritorno permettono ai ragazzi di Menotti di riportare, dopo ben 45 anni, il titolo al “Tomas Duco’”, la casa del Globo.

La splendida favola dell’Huracan dura davvero un battito d’ali.

Alla fine di quella stagione Cesar Menotti diventa il Selezionatore della Nazionale Argentina, con la non facile responsabilità di vincere il Mondiale che nel 1978 il suo paese avrebbe ospitato.

L’Huracan continua a buoni livelli per un paio di stagioni, raggiungendo una semifinale di Coppa Libertadores nel 1974 e piazzandosi al secondo posto nel Metropolitano del 1975 e del 1976.

Ma il ricordo di quella magica stagione è indelebile soprattutto per quello che ha significato per tutto il calcio argentino, capace con l’Huracan di Menotti e dei suoi ragazzi, di ritrovare il suo spirito, la sua indole e la sua vera natura.

Per chiudere, le parole che uno dei più grandi cantori d’Argentina, “El Negro” Fontanarrosa, dedicò all’Huracan di quella stagione memorabile.

“Tutti dovrebbero rallegrarsi della vittoria dell’Huracan per come è stato conseguito e per il modo con cui è stato ottenuto. Perché ha significato tornare alla più antica origine del calcio in questo Paese: giocare con allegria”.

huracan fontanarrosa

Storie maledette: ERASMO IACOVONE


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“Adesso pure la Roma !

Dicono che anche Gustavo Giagnoni, il mister dei giallorossi, sia interessato a me.

Dopo aver ceduto Pierino Prati alla Fiorentina pare non sia contento dei suoi due attaccanti, Musiello e Casaroli.

Qualche settimana fa è stata la Fiorentina stessa che pare abbia chiesto conto di me al Presidente Fico.

A novembre dicono che ci hanno provato entrambe a portarmi via da qua.

Tutto molto lusinghiero.

Ma nessuno mi ha ancora chiesto come la penso io !

Io, a Taranto, sto come un Re.

Ho girato su e giù per l’Italia prima di arrivare qui.

A Trieste pensavo addirittura di smettere.

Giocare in serie C mica ti fa arricchire e se poi fai il centravanti e in 13 partite non la butti dentro neanche una volta … beh, qualche pensiero negativo ti viene !

Poi a Carpi tutto è cambiato.

Non solo perché ho fatto tanti gol e perché abbiamo conquistato la promozione dalla serie D alla C ma perché a Carpi, in mezzo alla meravigliosa gente di quelle parti, ho trovato l’amore della mia vita.

Paola, la donna più bella tra tutte le bellissime donne emiliane.

Mi darà un figlio fra pochi mesi.

Mio figlio nascerà qui, a Taranto.

E forse ci crescerà.

In mezzo alla gente che mi ha amato dal primo momento, nonostante tutti i soldi spesi per il mio cartellino.

Non ho mai sentito diffidenza attorno a me.

Solo speranza.

La speranza di una città che sta crescendo, che sta dando pane e lavoro ai propri figli e che ama il calcio visceralmente, senza però che il calcio le abbia mai restituito granché.

Quest’anno però stiamo sognando !

Noi giocatori e tutta la gente di Taranto che riempie ogni domenica il nostro piccolo Salinella.

Sembra uno stadio britannico, tutto legno e tungsteno.

Ci stiamo giocando la promozione in Serie A.

Ascoli a parte, che pare davvero di un’altra categoria, con Catanzaro, Avellino, Monza, Ternana e Palermo sarà una battaglia fino alla fine.

Io mi sto divertendo come non mai da quando gioco a calcio.

La squadra è forte, fortissima.

Siamo affiatati, facciamo “gruppo” come dicono gli allenatori.

Ci vogliamo bene insomma.

Al mio fianco ho due fenomeni autentici.

Franco Selvaggi e Graziano Gori.

Io non sono bravo come loro con i piedi.

Anzi, ogni tanto la palla mi scappa e i miei compagni mi prendono in giro dicendo che non so stoppare neanche un sacco di cemento …

Ma con i loro passaggi e soprattutto i loro cross fanno sembrare bravo anche me !

Non sono un gigante con i miei 174 centimetri ma mi riesce facile saltare.

A Taranto sono arrivato la stagione scorsa, dal Mantova, nel mercato di novembre.

Ho segnato 8 gol in poco più di metà stagione.

Tutti di testa.

Dicono che assomiglio a Savoldi, il bomber del Bologna.

Chissà.

So solo che sarebbe davvero meraviglioso andare in serie A con il Taranto.

Certo che per riuscirci avremmo bisogno di un po’ più di fortuna di quanta ne abbiamo avuta oggi !

Con la Cremonese qui al Salinella la palla non ne voleva proprio sapere di entrare !

Ginulfi ha parato di tutto.

Meno male che dicevano che era vecchio e che non era più quello dei tempi della Roma !

E quando non ci arrivava lui ci hanno pensato i pali della porta.

Ne abbiamo presi 3 oggi, due io e uno Franco.

E’ andata così.

Guardiamo avanti.

Certo che il 1978 potrebbe davvero diventare un anno indimenticabile !

Alla fine dell’estate arriverà il mio primo figlio e magari qualche mese prima arriverà anche la promozione in serie A !”

 

 

Erasmo Iacovone non raggiungerà la promozione in serie A con il Taranto.

Erasmo Iacovone non giocherà mai più nessuna partita con il Taranto.

Erasmo Iacovone non giocherà mai più una partita di calcio.

… Erasmo Iacovone non vedrà nemmeno nascere sua figlia.

E’ il 5 febbraio del 1978.

Domenica sera.

I compagni di squadra al termine della sfortunata prestazione con la Cremonese insistono perché “Iaco-gol” (così era chiamato da tutti i tarantini) si unisca a loro per passare la serata insieme alla “Masseria” un noto ristorante della zona.

Erasmo non ne ha molta voglia.

Non ama uscire.

E’ una persona molto tranquilla “tutta campo di calcio e casa” lo definirà l’amico e compagno di squadra Adriano Capra.

In una intervista di qualche settimana prima Erasmo confesserà che il suo hobby è cucinare per lui e la moglie Paola.

Quella domenica Paola non è Taranto.

E’ tornata dai suoi genitori, a Carpi.

Ha una visita di controllo.

E’ in cinta del loro primo figlio.

Come tutte le sere si sentono al telefono.

Forse è proprio Paola che lo convince ad uscire, a distrarsi un po’ e a passare una serata in compagnia senza pensare continuamente al calcio, a partite vinte o perse, a gol realizzati o falliti …

Alla fine Erasmo si convince.

Esce di casa.

Sale sulla sua umilissima Citroen Dyane 6 e si mette in strada per raggiungere i compagni al ristorante.

E’ ancora arrabbiato per quanto accaduto in campo poche ore prima.

Ginulfi, il portiere della Cremonese e storico numero “1” della Roma di qualche anno prima, gli ha parato di tutto e le poche volte in cui non ci è arrivato lui ci hanno pensato i pali della porta a negare il gol al bomber del Taranto.

Un pareggio e un punto perso nella corsa alla promozione.

Dopo la cena Gori e compagni gli hanno riferito che ci sarebbe stato anche un piccolo spettacolo di cabaret.

In fondo qualche risata potrebbe essere proprio il toccasana giusto per il suo umore … per dimenticare i gol sfiorati e soprattutto la lontananza dall’adorata Paola.

Passa la serata con i compagni.

Finito lo spettacolo il gruppo degli “scapoli” della squadra vorrebbe “tirare l’alba” altrove ma nonostante le insistenze dei compagni Erasmo decide di tornarsene a casa.

Da solo, come era arrivato.

Sono le prime ore del mattino.

Erasmo esce dal ristorante e risale sulla sua Dyane.

Percorre le poche decine di metri che dividono la stradina interna che porta alla “Masseria” per immettersi sulla Statale per rientrare a Taranto.

In quel momento sopraggiunge un automobile.

E guidata da un giovane pregiudicato locale, tale Marcello Friuli.

La polizia gli è alle calcagna dopo che il Friuli con la sua Alfa 2000 GT appena rubata ha forzato un posto di blocco.

Sta viaggiando a folle velocità.

La polizia dirà che sfiorava i 200 km all’ora.

Ma soprattutto è a fari spenti.

Erasmo non può vederlo.

La sua macchina, la sua piccola e umile Dyane, viene centrata in pieno dalla macchina del Friuli.

Erasmo viene sbalzato fuori dall’abitacolo.

Muore sul colpo.

Il suo corpo verrà trovato a diverse decine di metri dall’auto.

Taranto poche ore dopo si sveglierà senza il suo idolo, il suo emblema … la sua speranza.

Una moglie, con una bimba in grembo, si sveglierà senza il suo uomo.

La città è attonita.

Nessuno riesce a capacitarsi di quello che è successo.

Non ora … non qui … non adesso che i nostri sogni, grazie a quell’umile, buono e coraggioso numero 9 stavano prendendo finalmente forma …

La forma di questo ragazzo di un piccolo paesino del Molise che dopo aver girovagato per l’Italia aveva trovato il suo Paradiso in Puglia, portandosi dietro dall’Emilia il suo amore.

Erasmo, che giocava con il cuore in mano e che nella suola degli scarpini aveva probabilmente dei propulsori nascosti che lo facevano saltare come un canguro per andare a colpire di testa palloni che parevano irraggiungibili … anche per quelli molto più alti di lui.

La rabbia per questa morte assurda è tanta.

Sono in molti quelli che non riescono ad accettarlo.

Uno di questi è il portiere del Taranto, Zelico Petrovic, amico fraterno di Erasmo, che viene trattenuto a stento dopo che si era precipitato nell’ospedale dove era ricoverato il Friuli, rompendo anche un vetro con un pugno nel tentativo di arrivare al collo di quel delinquente.

Il Presidente, Giovanni Fico, è distrutto.

Il suo amato Taranto stava lottando per qualcosa di mai neppure lontanamente sognato prima.

Erasmo incarnava più di ogni altro questo sogno.

Per lui Fico aveva “rotto il salvadanaio” spendendo più di 400 milioni, cifra incredibile per quei tempi e per un giocatore che non aveva mai giocato in serie A.

Sarà sua l’idea, solo due giorni dopo la morte di Erasmo, di intitolargli lo stadio.

Taranto e la sua gente da quella maledetta notte d’inverno hanno smesso di sognare.

La promozione in serie A, così vicina fino a quel terribile 5 febbraio, diventerà presto una chimera.

Una sola vittoria nelle ultime 12 partite sancirà, più di qualsiasi commento, quanto Erasmo Iacovone fosse fondamentale per questa squadra.

Il Taranto calcio è ancora fermo a quel giorno.

Da allora tanta serie C con qualche breve escursione nella categoria superiore e addirittura con l’onta del campionato nazionale dilettanti

Di serie A però, non se n’è mai più parlato.

Ne tantomeno la si è sognata.

A Taranto però tutti conoscono la storia di quel Taranto e di Erasmo Iacovone.

Anche i bambini.

Tramandata di generazione in generazione, come si faceva un tempo.

Da qualche anno c’è anche qualcosa di tangibile ad aiutare la memoria di “Iaco-gol”:

Una statua a lui dedicata, posta all’entrata della curva più calda del tifo tarantino.

E’ posta su un piedistallo.

In alto … in modo che tutti possano vederla.

In alto … come quando Erasmo saliva in cielo verso il pallone per spedirlo con una delle sue proverbiali incornate in fondo alla rete …

Riposa in pace “Iaco”.

Per una città intera e per i tanti che ti hanno voluto bene, il tuo ricordo non morirà mai.

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Per questo mio modesto tributo a questo grande e sfortunato campione devo ringraziare l’amico Adriano Capra, grande amico e compagno di squadra di Erasmo in quel meraviglioso Taranto, che con i suoi racconti, i suoi aneddoti, la sua coinvolgente simpatia e la sua umanità mi hanno permesso di raccontare di Erasmo.

E devo ringraziare soprattutto Paola, che con il suo appoggio, la sua disponibilità e la sua profondità d’animo mi ha accompagnato e supportato in questo racconto.

Senza la sua “benedizione” non avrei mai potuto raccontare di Erasmo e della sua tragica storia.

Grazie ad entrambi dal profondo del cuore.

Sono un piccolo “artigiano della parola” ma spero davvero che questo racconto arrivi a più persone possibili perché la storia di questo giocatore ma soprattutto di questa “bella persona” possa andare un po’ più in là di Taranto e della sua meravigliosa gente che ha amato e continua ad amare come e più di allora Erasmo e gli altri ragazzi di quella magica stagione.

Vorrei chiudere con una frase meravigliosa e toccante di Paola che forse più di ogni altra riassume l’essenza di Erasmo Iacovone …

“Erasmo non poteva appartenere a questo mondo terreno perché aveva troppe qualità insieme … e tutte bellissime.”

Storie maledette: RAMIRO “El chocolatin” CASTILLO


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E’ il momento più bello di tutta la mia carriera.

Domani giocheremo la finale della Coppa America.

Contro il Brasile.

Brasile che in semifinale ha annichilito il Perù con un perentorio 7 a 0.

Per la Bolivia, il mio Paese, è comunque un risultato storico.

Proprio qui in Bolivia, nel lontano 1963, vincemmo il nostro unico titolo di campioni del Sudamerica.

E’ l’ultima partita la vincemmo proprio contro il Brasile !

Anche questa edizione è stata organizzata nel mio Paese.

Siamo arrivati in finale senza rubare nulla, solo con le nostre forze e il sostegno dei 42.000 che gremiscono il nostro “Hernando Siles” e gli altri 8 milioni di boliviani che sognano un’altra vittoria, dopo la bellezza di 34 anni di digiuno.

Possono dire quello che vogliono i vari commentatori ed opinionisti che sono arrivati qui dal resto del Sudamerica “giocare in altura è un vantaggio enorme per i boliviani … le altre squadre non sono abituate e devono semplicemente cercare di adattarsi”.

Quante storie !

In fondo è sempre e solo una palla che rotola e noi finora l’abbiamo fatta rotolare meglio di tanti altri in questo torneo.

Abbiamo vinto il girone eliminatorio a punteggio pieno e senza subire un solo gol.

Abbiamo battuto tra le altre Venezuela e Uruguay in questo girone … mica le ultime arrivate !

Poi è toccato alla Colombia nei quarti e tre giorni fa al Messico in semifinale.

Che partita ragazzi !

Siamo andati in svantaggio dopo pochi minuti e ci abbiamo messo un po’ a reagire.

Il timore di non farcela, di doverci arrendere all’ultimo ostacolo prima della finale ci aveva attanagliato le gambe.

Poi ci ha pensato il nostro bomber Erwin “Platini” Sanchez a ridarci speranza trovando il gol del pareggio con una punizione impressionante.

A quel punto ci siamo sbloccati ed è arrivato poco dopo il 2 a 1 … che ho segnato io stesso !!!

La palla non l’ho neanche vista … mi è sbattuta sul ginocchio ed è finita in rete !

Beh … un po’ di fortuna nella vita non guasta …

Il nostro pubblico è impazzito e il 3 a 1 di Moreno nel finale ha sancito la nostra vittoria.

https://youtu.be/CjRLxxIV29U

Ora siamo qua, aspettando queste ultime ore che ci dividono da una finale storica.

La Paz è come impazzita !

Tutto il popolo boliviano sarà con noi nella cancha a sostenerci.

Per tentare un’impresa quasi impossibile.

E’ il Brasile di Ronaldo, di Romario, di Leonardo, di Roberto Carlos, di Denilson e di Dunga.

Fanno paura … ma proprio per questo non abbiamo nulla da perdere per cui … proviamoci !

Ramiro “El chocolatin” Castillo non giocherà quella finale.

Poche ora prima di scendere in campo gli arriva una telefonata.

La peggiore telefonata possibile per un padre.

Il figlio di Castillo, Juan Manuel di 7 anni, è stato colpito da una grave forma di epatite.

Le sue condizioni sono gravissime.

Ramiro lascia il ritiro, si precipita nell’ospedale di La Paz dove è ricoverato il figlio.

La situazione è disperata.

Ramiro non si muoverà più da lì, dal capezzale del suo piccolo Juan Manuel.

E’ ancora negli occhi di tutto il popolo boliviano quando dopo la storica vittoria contro il Brasile nel 1993 che sancì di fatto la prima qualificazione ottenuta sul campo per i Campionati del Mondo di calcio dalla Bolivia e che Ramiro festeggiò insieme ai suoi compagni di squadra facendosi un intero giro del campo con il piccolo Juan Manuel sulle spalle.

Juan Manuel non ce la farà.

Due giorni dopo il ricovero il piccolo lascerà la mamma e il papà per volare in cielo.

Ramiro è distrutto.

L’intero popolo boliviano si stringe attorno a lui e alla sua famiglia.

La solidarietà e l’affetto di amici e compagni di squadra è enorme.

Ramiro, che dopo tanti anni in Argentina in squadre prestigiose come il River Plate

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o il Rosario Central aveva deciso da poco di rientrare nel suo paese, nel Bolivar, vuole smettere con il calcio.

Che senso ha correre dietro ad un pallone quando le notti sono insonni e alla mattina non hai neppure la forza di alzarti dal letto ?

Il suo stato depressivo è evidente, conclamato.

Le prime settimane sono terribili.

Ramiro “el chocolatin” Castillo è un fantasma.

Poi gli amici più cari e la moglie lo convincono.

Riprende gli allenamenti.

Corre, suda, lotta … i compagni provano in ogni modo a farlo sorridere, ad aiutarlo a riprendere interesse per il calcio … e per la vita.

Ricomincia il campionato e Ramiro è tornato in prima squadra.

Il peggio pare passato.

Torna anche in Nazionale.

Ci sono le qualificazioni per i Mondiali di Francia che si giocheranno la prossima estate.

Tutto inutile, tutto effimero.

La testa torna sempre lì … ogni giorno.

Al suo cucciolo, al suo piccolo Juan Manuel che un destino bastardo gli ha strappato troppo presto.

E il 18 ottobre del 1997.

Ramiro viene trovato impiccato con un lenzuolo nella sua casa di La Paz.

Il giorno prima, il piccolo Juan Manuel, avrebbe compiuto 8 anni.

 

Come al solito ci tengo a precisare che la prima parte “romanzata” e raccontata in prima persona è frutto della immaginazione di chi scrive.

“El chocolatin” così chiamato per il colore scurissimo della pelle, è stato un grande giocatore a cui il destino ha riservato la peggiore possibile delle cose che possono capitare ad un padre.

Era una persona umilissima, semplice, schiva e riservata.

… qualcuno dice che se fosse stato brasiliano o argentino sarebbe diventato una star a livello mondiale … per lui purtroppo il fato aveva deciso altro …

Storie maledette: PAUL LAKE


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“Mi sento un estraneo.

Sono qui, per la classica foto di squadra nel primo giorno di precampionato.

Sono qui … ma in realtà non ci sono.

Questa commedia va avanti ormai da anni.

E ogni anno mi sento sempre più inutile, fuori posto.

Quasi me ne vergogno.

In realtà non ho fatto nulla di male … anzi.

Le ho provate davvero tutte da quel maledetto giorno di fine estate al Villa Park di Birmingham.

Era il 5 settembre del 1990.

Avevo 21 anni.

Howard Kendall mi aveva consegnato la fascia di capitano del Manchester City.

L’unica squadra per cui io abbia mai giocato.

L’unica per la quale mi interessava giocare.

Pochi mesi prima ci sono stati i Mondiali di calcio.

C’è mancato davvero un pelo che non ci fossi anch’io nei 22 che sono saliti sull’aereo per l’Italia.

Solo che nell’ultima partita con la Nazionale B prima delle convocazioni quel vecchio sclerotico che ci faceva da selezionatore ha deciso di farmi giocare ala sinistra contro l’Irlanda.

Io ala sinistra !

Ho giocato e posso giocare dappertutto … tranne che ala sinistra e centravanti.

Mi sono giocato così le mie chances.

Ma mi è passata alla svelta !

A 21 anni ce n’è di tempo !

Invece il mio tempo ha iniziato a finire il 5 settembre del 1990, sul campo dell’Aston Villa.

Anticipo pulito e con perfetto tempismo su Tony Cascarino.

Solo che i tacchetti si piantano nel terreno … mentre il resto della gamba spinge per andare in avanti.

Nel contrasto di forze sento un dolore al ginocchio.

Lancinante, terribile.

Rimango a terra.

“E’ una fottuta distorsione ai legamenti” penso.

Mi era già capitato qualcosa di simile anche due anni fa, contro il Bradford.

Anche se il dolore non era neanche paragonabile.

Lo strepitoso (!) staff medico del Manchester City decide di farmi sottoporre ai raggi X.

“Niente di rotto, Paul ! Fra meno di due mesi sarai in campo”

Solo che appena riprovo a correre il dolore torna più forte di prima.

Si decidono a farmi un’artroscopia.

Il legamento crociato anteriore è “andato”.

Il primo tentativo di ricostruzione fallisce miseramente.

Appena ritorno ad allenarmi il crociato mi parte ancora.

18 operazioni.

Quasi altrettanti tentativi di rientro.

Sempre meno convinti, sempre più forzati.

Ormai non ci credo più … come faccio a crederci ?

E ancora questa patetica pantomima … la foto di gruppo con tutti i miei compagni di squadra, alcuni dei quali non sanno neppure chi sono e non mi hanno nemmeno mai visto giocare.

Sono qui … ma in realtà non ci sono.

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Paul Lake da quel maledetto settembre del 1990 le ha provate davvero tutte per tornare a giocare a calcio.

Questa è la storia di un ragazzo che amava il City, che fin da bambino andava sugli spalti del Maine Road a tifare i Blues.

Il Manchester City che tranne alcuni brevi periodi della sua storia è sempre stato nell’ombra del più seguito, amato e vincente Manchester United.

Ma che ha un pubblico fedele, appassionato come pochi in Inghilterra, che ha sempre stipato le tribune del Maine Road nonostante per tanti anni i suoi supporters si siano sempre sentiti come sulle montagne russe.

Un attimo là in alto quasi a toccare le stelle fianco a fianco alle grandi d’Inghilterra e un attimo dopo a doversi sudare il ritorno in First Division a Barnsley, a Hull o a Bournemouth.

Proprio in uno di questi periodi nasce questa piccola storia.

Quella di un giocatore dal talento precoce quanto cristallino, dalle possibilità illimitate che poco più di un teenager aveva già messo la fascia di capitano al braccio nella squadra che amava, l’unica per la quale era interessato a giocare.

Ci avevano provato il Liverpool, l’Arsenal, i Rangers di Glasgow … addirittura il Manchester United a portarlo via dal Maine Road.

Niente da fare.

“E al Manchester City che voglio giocare. Possibilmente per sempre”

Howard Kendall, all’inizio della stagione 1990-1991 non ci pensa due volte.

Contratto di 5 anni e fascia da capitano … a Paul che di anni ne ha 21 e quando in squadra ci sono giocatori come Peter Reid o Colin Hendry che hanno giocato decine e decine di partite con le rispettive nazionali d’Inghilterra e di Scozia … e hanno come minimo 10 anni più di lui !

Ma in quella maledetta sera di settembre del 1990 la fortuna gli volta completamente le spalle.

Sembra un intervento normalissimo, quasi banale.

Invece il ginocchio va in mille pezzi.

Il crociato si spezza e con lui la carriera di Paul.

5 anni dove da capitano a idolo incontrastato dei tifosi del Manchester City arriverà a sentirsi un peso per il Club.

Club che non farà molto in quegli anni per meritarsi la stima di Paul.

Club che quando perderà definitivamente la fiducia in un suo completo recupero lo farà passare attraverso esperienze umilianti come quando, dopo l’ennesima operazione al suo martoriato ginocchio (saranno i compagni di squadra con una colletta a pagare il biglietto aereo alla fidanzata di Paul per accompagnarlo) il Club lo farà tornare in classe Economy, con tanto di stampelle e in un sedile troppo angusto per i suoi 185 centimetri e il suo ginocchio ingessato … con il Medico del Club comodamente seduto in business class ..

A tutto questo si aggiungerà l’onta di atterrare a Manchester e doversi pure cercare una carrozzina a noleggio con la quale arrivare ad un taxi …

Come detto i tentativi saranno tanti.

Chi scrive ha avuto la possibilità di vedere dal vivo uno dei primi, quelli in cui la speranza era ancora viva.

Fu nel primo “Monday night” del calcio inglese.

Siamo ad agosto del 1992 ed è la prima di campionato.

Si gioca al Maine Road e la partita è Manchester City vs QPR.

Paul è in campo, con il suo adorato numero 8.

Ha fatto tutta la preparazione, tra alti e bassi ma finalmente sembra a posto.

Peter Reid, manager del City, lo definirà “l’acquisto più importante dell’estate” talmente grande è la soddisfazione nel riavere Paul a disposizione.

Paul per un’ora gioca alla grande.

Gioca addirittura in attacco stavolta.

A fianco di Niall Quinn e si muove da seconda punta, facendo da riferimento per i centrocampisti e muovendosi su tutto il fronte d’attacco.

Dopo un’ora di partita però Paul si tiene il ginocchio … chiede il cambio.

Esce sulle sua gambe, seppur zoppicando leggermente.

Il Maine Road trattiene il fiato.

Dopo il match Paul dirà che il ginocchio non è a posto, gli si è gonfiato un po’ e non si sente troppo sicuro.

Tre giorni dopo il Manchester City va a Middlesbrough.

Paul viene comunque mandato in campo dall’inizio.

La sua partita durerà la bellezza di tre minuti … prima che il suo legamento crociato si spezzi per la 3a volta.

Ancora un tentativo giocando con le riserve nel 1994 e poi tutti i possibili e immaginabili ricorsi più o meno disperati come agopuntura e stregoni vari con le loro acque miracolose e le loro strampalate preghiere.

Paul cade in una terribile depressione.

Ogni santo giorno deve prendere degli antidolorifici per riuscire ad avere una parvenza di vita normale.

Si alza da letto con dolori atroci e alla sera va a dormire con dolori altrettanto atroci. Gli antidolorifici leniscono il dolore al ginocchio … ma non all’anima di Paul.

Gli è stato tolto il calcio, troppo presto per pensare a cos’altro fare nella vita.

Nel 1995 si sposa, ha un figlio ma il suo matrimonio va in pezzi dopo pochi mesi.

Il Manchester City però, finalmente si ricorda di lui e non lo abbandonerà più.

Fa un corso da fisioterapista e inizia a lavorare nello staff medico del Club.

E’ quello di cui Paul ha bisogno.

Per fortuna pian piano i suoi fantasmi lo abbandonano.

Arriva una nuova storia d’amore.

Sposa Joanne e arrivano due figli.

La vita ricomincia a sorridergli.

Adesso Paul, dopo aver fatto da “ambasciatore” per il Manchester City nella comunità occupa lo stesso ruolo stavolta per la Premier League, andando in giro per il Regno Unito  e per il mondo a promuovere quello che per molti è ora il campionato più bello del mondo.

Sono in pochissimi che si ricordano di lui come giocatore ma sono in tanti, molto più competenti del sottoscritto, che lo definiscono il giocatore potenzialmente più completo espresso dal calcio inglese negli ultimi 30 anni.

Bellissima l’ironia con la quale Paul ripensa a quel periodo

“Ogni tanto mi chiedono cosa salverei di quei maledetti anni ’90 … effettivamente due cose ci sono.

La nascita del mio primogenito Zac e il mio primo concerto degli Oasis … “paul lake1

Come al solito la prima parte raccontata in prima persona è di pura fantasia del sottoscritto ed è “romanzata” da scampoli di diverse interviste e soprattutto dalla splendida autobiografia di Paul Lake “I’m not really here” di cui consiglio caldamente la lettura

A seguire un piccolo tributo video ad un calciatore che realmente aveva le qualità tecniche ed atletiche per diventare un grandissimo del calcio britannico e non solo.